“Dal cervello impariamo cosa è dolce e cosa è amaro”. Sapori, odori e neuroscienze

Andrea Stracciari

Neurologo, Già Docente di Neurologia e Comportamento Università di Bologna
Cultore della Materia Università di Pavia

 

Contributo presentato da Nicola Rizzo

 

Abstract

The perception of flavor is complex and involves the perceptual combination of anatomically distinct sensory systems, where smell and taste represent the main actors. They are elicited in response to chemical stimuli, so to be defined “chemical senses”. Also non chemical senses contributed to appreciate flavors and aromas, but smell and taste are mostly relevant.

In this article, the anatomy of taste and smell systems is briefly summarized, and mechanisms conditioning our individual differences in flavor identification, choice and appreciation are reviewed.

 

1. I sistemi del gusto e dell’olfatto e la multisensorialità

Che il cervello abbia un ruolo critico nelle esperienze sensoriali è storia antica. Ippocrate lo scriveva a chiare lettere: “E l’uomo deve sapere che dal cervello derivano le gioie, i piaceri, le risate e gli scherzi, e le tristezze, i dolori, l’avvilimento e il pianto. E per merito suo acquisiamo saggezza e conoscenza, e vediamo e sentiamo e impariamo cos’è giusto e cos’è sbagliato, cosa è dolce e cosa è amaro”.

Dei canonici cinque sensi1vista, udito, gusto, olfatto, tatto –, gusto ed olfatto sono definiti “chimici”. Infatti, mentre vista, udito, tatto, sono attivati da stimoli fisici, gusto e olfatto si attivano con un’analisi sensoriale “on-line” di stimoli chimici, praticata in sedi ben definite e strategicamente localizzate (bocca e naso), che si innescano in occasione del processo alimentare.

Dall’inizio dell’evoluzione abbiamo imparato ad introdurre qualcosa in bocca o avvicinarla al naso per lo più con l’intenzione di mangiarla o, quanto meno, di valutarne sapore, odore e potenziale commestibilità (come è noto ciò avviene precocemente: i bambini anche molto piccoli tendono a mettersi in bocca qualsiasi cosa per assaggiarla, a volte con pericolose conseguenze!). E lo facciamo ancora oggi quando al mercato annusiamo il melone o assaggiamo una ciliegia prima di deciderne l’acquisto. Non a caso gusto e olfatto hanno molto in comune e lavorano spesso gomito a gomito – Brillat-Savarin [1] sosteneva che essi formano un unico senso, di cui “la bocca rappresenta il laboratorio e il naso il camino” –, pur avendo metodi e modalità molto diverse. Ad esempio, a differenza dell’olfatto, il senso del gusto non è mai subito passivamente, ma si attiva in noi dopo che abbiamo consapevolmente deciso di mettere in bocca qualcosa. Inoltre l’olfatto gestisce un apparato nervoso tutto suo, mentre il gusto viene veicolato da nervi che hanno primariamente altre funzioni.

Negli umani, l’apparato del senso del gusto è localizzato esclusivamente nella bocca e viene esercitato attraverso gli organi detti appunto gustativi. Nel dettaglio, il gusto è generato da un insieme di informazioni sensoriali, provenienti da migliaia di piccoli bottoni anatomici, le papille gustative, distinte per il loro aspetto in fungiformi, fogliformi, circumvallate e filiformi. Esse sono distribuite sulla lingua – in parte, anche sul palato e sui pilastri tonsillari –, in una formazione “a cintura”, in numero che può arrivare fino a 10.000 nei cosiddetti supergustatori. Eh sì, perché il numero delle papille è direttamente proporzionale al livello di sensibilità gustativa, specie per alcuni sapori come il salato e l’amaro. Nella percezione gustativa sono state infatti rilevate differenze individuali – si parla di “non gustatori”, “gustatori normali”, “super gustatori”, nonché di genere. Il fatto che usualmente la donna viene ritenuta avere “più gusto” dell’uomo, anche in senso metaforico, ha una spiegazione scientifica: rispetto all’uomo, la donna possiede infatti un numero più elevato di papille gustative. Non si può escludere che questa differenza abbia un significato ancestrale di protezione della prole: forse alla femmina spettava assaggiare il cibo procurato dal maschio, al fine di capire se era commestibile o tossico, prima di darlo in pasto ai figli.

Nonostante i recettori del gusto siano prevalentemente disseminati sulla lingua, quando si parla di una persona dai gusti raffinati si dice “di palato fine” e non “di lingua fine”. Ciò è probabilmente legato al fatto che il palato è stato ritenuto a lungo la sede primaria del senso del gusto.

Se negli umani la sensazione gustativa viene registrata solo all’interno del cavo orale, in diversi animali si trovano recettori con funzioni analoghe anche in altre parti dell’organismo: per esempio, in certi pesci i recettori gustativi sono situati anche lungo la linea laterale del corpo e negli invertebrati si possono riscontrare anche a livello degli arti (es. mosche) e delle antenne (es. aragoste).

Ma torniamo a noi umani. Dalla bocca e dalla lingua le sensazioni gustative vengono veicolate fino ai centri del cervello, sfruttando il passaggio offerto loro da alcuni nervi cranici. In particolare, le cellule gustative recettoriali inviano le proprie fibre afferenti a tre nervi cranici: il nervo faciale (VII), il nervo glossofaringeo (IX) e il nervo vago (X), che veicolano l’impulso gustativo al nucleo del tratto solitario e da qui al talamo, precisamente nel nucleo ventrale posteromediale, quindi alla corteccia gustativa, una sottile striscia di corteccia a cavallo dell’arteria cerebrale media, giusto dietro alla fessura entorinale, una parte della formazione dell’ippocampo, struttura cerebrale presente nel lobo temporale mediale del cervello dei mammiferi, la cui forma richiama un cavalluccio marino.

Secondo la cosiddetta “teoria della mappa del gusto” – in voga nel XX secolo, oggi nettamente ridimensionata – la distribuzione dei recettori all’interno del cavo orale sarebbe organizzata secondo una mappa con precise collocazioni, in relazione alle diverse tipologie di gusto, che nella specie umana sono tradizionalmente quattro – dolce, amaro, salato e acido. A questi si è aggiunto in epoca recente un quinto gusto, peculiare di popolazioni orientali, l’umami, scoperto in Giappone all’inizio del secolo scorso come sapore legato al glutammato di sodio, presente nei dadi da brodo, nel pomodoro e nel formaggio parmigiano-reggiano, e nel 1985 ufficialmente riconosciuto come gusto di base. Ulteriori evidenze sembrano indicare che siano possibili altri gusti: un gruppo di studiosi statunitensi [2] ha recentemente scoperto che la lingua umana ha delle papille apposite anche per la degustazione del sapore grasso, o oleogusto, che tali autori indicano come il “sesto gusto” della lingua.

Secondo la suddetta mappa del gusto (o dei sapori), il gusto dolce verrebbe captato da papille gustative ubicate sulla punta della lingua, il gusto amaro invece registrato da papille gustative poste nella parte posteriore o dorso della lingua. I gusti salato, acido (ed anche il quinto gusto umami) sarebbero prevalentemente rilevati da papille poste ai margini della lingua. Tale distribuzione avrebbe un significato funzionale: la localizzazione anteriore per i recettori del dolce potrebbe servire a stimolare l’ingestione del cibo, mentre la localizzazione posteriore per i recettori dell’amaro avrebbe un preciso ruolo di protezione.

L’idea della mappa del gusto si basa su alcuni articoli tedeschi di inizio Novecento, in particolare di David Pauli Hänig dell’Università di Lipsia [3], che riportavano piccole differenze di soglia di percezione dei sapori in differenti regioni della lingua, dati successivamente erroneamente interpretati nella traduzione inglese come indicativi dell’esistenza di recettori specifici per ogni tipo di gusto, ipotesi sostenuta negli anni Quaranta del secolo scorso da Edwin Boring, psicologo di Harvard [4], fino a quando nel 1975 questa interpretazione venne apertamente contestata [5]. Oggi prevale l’idea che la percezione dei sapori sia distribuita indifferentemente in tutta la lingua, anche se indubbiamente alcune zone possono percepire un determinato sapore leggermente prima di altre, quindi una diversa sensibilità e non specificità tra le diverse zone della lingua, comunque importante nella percezione dei gusti, conferendo dinamicità all’apprezzamento dei sapori [6].

Esistono inoltre fattori genetici alla base delle diverse percezioni di gusto. I soggetti poco sensibili, cosiddetti non gustatori, hanno bisogno di aggiungere sale o zucchero agli alimenti per percepire lo stesso livello di sapore gustato dai soggetti più sensibili. “L’impero del gusto ha anche sudditi ciechi e sordi” ammoniva Brillat-Savarin [1].

Nei mammiferi il singolo gusto non pare essere codificato esclusivamente da particolari fibre nervose, ma ogni fibra afferente sembra rispondere a un’ampia gamma di stimoli gustativi. Non c’è inoltre ad oggi evidenza che la rappresentazione dei sapori nella corteccia gustativa abbia localizzazioni specifiche per i singoli sapori, almeno negli umani [7].

Anche la quantità di ciò che introduciamo nella bocca ha un significato: per far scattare la percezione del sapore è necessario che una sufficiente quantità di sostanza entri in contatto con i recettori papillari. Esiste quindi una soglia di percezione sensoriale che definisce la dose minima di sostanza alimentare capace di far percepire alle papille gustative un determinato sapore. Tale soglia è soggettiva ed è condizionata dalle condizioni generali dell’organismo (es. malattia, febbre – dice David Hume ne La regola del gusto [8] che “un uomo con la febbre non sosterrebbe che il suo palato è in grado di giudicare i sapori” –, dall’età, da particolari abitudini come fumo, alcool, ecc.).

Nel contempo esiste una soglia sensoriale specifica per ogni sapore: è per questo che al termine di un pasto appagante troviamo comunque lo spazio per il dolce. Il meccanismo della sazietà sensoriale specifica ci impedisce di avere una dieta altamente monotona, non utile dal punto di vista nutritivo, in quanto non aiuta ad esplorare nuovi sapori. Ne consegue però che più è ampia la scelta di alimenti durante un pasto, come nei buffet, maggiore sarà la quantità di alimenti consumata.

La lingua, per mezzo di recettori tattili e termici che proiettano al nervo trigemino, è in grado di valutare anche la consistenza – durezza, mollezza, rugosità, viscosità, untuosità, viscidità, astringenza –, così come la forma e la temperatura del cibo. Aetius, medico, teologo e filosofo vissuto in Antiochia nel IV secolo prima di Cristo, attribuisce al filosofo greco Alcmeone (V secolo a.C.) la frase: “distinguiamo i sapori per l’umidità ed il tepore che è nella lingua, oltre che per la sua morbidezza”. In certi casi si possono attivare anche recettori per il dolore, come occorre ad esempio se il cibo è troppo caldo o troppo duro (già il presocratico Democrito riteneva che le differenti qualità del gusto sono generate dall’azione meccanica di “atomi” puntuti sulla superficie della lingua). Esisterebbe inoltre un senso gustativo particolare, detto senso chimico comune, che ci fa apprezzare con la lingua certe caratteristiche dei cibi diverse dai sapori, soprattutto termiche (es. il fresco del mentolo, il “fuoco” del peperoncino). Infine, la sensazione di gusto può avere una diversa durata, talvolta persistendo anche a lungo (decine di minuti) dopo l’ingestione del cibo e potendosi modificare: è il concetto di retrogusto, che occorre specialmente per certe bevande come il caffè o il vino, può avere varie tonalità ed essere sensibilmente diverso dal gusto iniziale. Qualcosa di analogo è stato recentemente segnalato anche per l’olfatto: l’Accademia della Crusca definisce retrolfatto il residuo organolettico che, prodotto per via retronasale da molecole odorose, persiste in bocca dopo la degustazione di una bevanda (specialmente vino e birra), di un cibo o di un condimento; in alternativa, il sistema sensoriale che, in seguito all’assaggio, attraverso recettori olfattivi rinofaringei, permette di percepire in bocca la natura aromatica di cibi, condimenti e bevande.

Ciò conferma l’intenso lavoro di squadra operato dai due sensi: il sapore del cibo è apprezzato anche per il coesistente emergere di sensazioni olfattive, seppur in passato (es. Aristotele) l’olfatto sia stato considerato un senso “minore”.

Olfatto e gusto sono strettamente legati fra loro – pur avendo vie nervose distinte – tanto è vero che quando annusiamo il profumo del cibo, la sensazione che ne deriva ci risveglia il gusto. Gordon Sheperd, sostenitore della neurogastronomia [9], ritiene che i sapori più svariati e raffinati che rileviamo in realtà non vengano gustati, ma odorati. L’odore del cibo penetra nella cavità nasale (via ortonasale, inspiratoria), dove si trova la membrana olfattiva, in diretta comunicazione con la bocca. Quando si afferma che un determinato piatto è squisito, in genere ciò significa che ha non solo un sapore, ma anche un odore delizioso. A ciò contribuisce, in misura consistente, la via retronasale, espiratoria. Per contro, quando abbiamo il raffreddore che appanna il nostro olfatto, proviamo contestualmente una riduzione dell’apprezzamento gustativo e della gradevolezza del cibo che assaporiamo (“con questo raffreddore non sento nessun sapore!”). È comune osservazione che tapparsi il naso aiuta ad ingoiare sapori sgradevoli, come quelli delle medicine.

Anche il sistema olfattivo – uno dei più antichi filogeneticamente – ha suddivisioni centrali e periferiche. La percezione di un odore si verifica quando le molecole odorose presenti nell’aria sono inalate e legate ai recettori dell’epitelio olfattivo, da cui i fascicoli nel nervo olfattivo veicolano al bulbo olfattorio e poi alle connessioni centrali. Negli umani manca il “sistema olfattivo accessorio” di molti altri mammiferi, essendo presente un residuo non funzionante dell’organo vomero nasale, recettore dei ferormoni, inoltre il sistema olfattivo periferico è ridotto: per esempio gli umani hanno meno turbinati di molti mammiferi, e i loro epiteli olfattivi sono riscontrati su uno o due di essi e sulle strutture adiacenti. Hanno tuttavia maggior sviluppo nelle connessioni centrali.

Ma anche i sensi definiti “fisici” hanno un ruolo: il tatto, di cui abbiamo già parlato, che invia i messaggi al cervello attraverso il nervo trigemino, la vista, come sanno bene gli chef che curano in modo quasi ossessivo la presentazione dei piatti, inclusi il colore, il disegno e la forma, in modo da esaltarne l’apprezzamento anche estetico, l’udito: le patatine o i popcorn ci darebbero lo stesso piacere gustativo se non “scrocchiassero” in bocca? Una sorta di suono dei cibi, definito anche effetto crunch. Per gli studi su questo argomento – in particolare sulla “patatina sonica” o sonic chip – gli psicologi Charles Spence e Massimiliano Zampini nel 2008 si aggiudicarono il premio Ig Nobel2 per la Nutrizione.

Occorre anche sottolineare che i sapori non vengono mai soli e che ogni cibo o bevanda si colloca in un contesto valutativo chimico-fisico complesso, multisensoriale. È il concetto cui si rifà la citata neurogastronomia di Gordon Sheperd, ma che già era noto, se è vero che Brillat-Savarin [1] nel 1825 scriveva: “Chi ha assistito ad un sontuoso banchetto, in un salone adorno di specchi, di pitture, di statue e di fiori, saturo di profumi, arricchito dalla presenza di belle donne e riempito di suoni dolci e melodiosi, non avrà bisogno di un grande sforzo intellettuale per accorgersi che tutte le scienze sono state messe a frutto per esaltare convenientemente i godimenti del gusto e far loro da cornice”. E non era da meno Filippo Tommaso Marinetti che nel suo La Cucina Futurista [10] incoraggiava l’accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi intonati al tipo di cibo proposto, per un più intenso appagamento sensoriale.

In casi estremi, il condizionamento della forma sulla sostanza si spinge fino ad apprezzare maggiormente la cornice rispetto al contenuto, come succede in certi costosissimi locali di tendenza dove il rito del presenzialismo raggiunge le sue vette più elevate: come si fa a non andare almeno una volta nella vita dal celeberrimo macellaio turco per vedere come sala le carni con il gomito e per assaggiare la bistecca d’oro (“Gold Tomahawk”), magari nella stessa sala con il calciatore famoso o con l’acclamata influencer? Si può solo sperare che certe mode abbiano vita breve.

Non solo un contesto gradevole influisce sul piacere del cibo, ma lo stesso cibo si lega con forza a quel determinato contesto. Alcuni cibi diventano parte integrante del godimento in occasioni speciali – come i popcorn o le noccioline al cinema e lo zucchero filato al luna park – e solo in quelle: chi apprezzerebbe in trattoria una rotella di liquirizia al posto del dessert?

 

 2. Oltre l’impero dei sensi: dalla percezione all’emozione

In ogni caso, le sensazioni provocate dal gusto e dall’olfatto si traducono a livello cerebrale in emozioni, che saranno positive o negative a seconda della gradevolezza percepita – gioia, piacere, o al contrario repulsione, disgusto, rimanendo poi per sempre in memoria.

Come si sa, le emozioni sono elementi imprescindibili e ubiquitari delle relazioni umane, che persone di ogni età, sesso, etnia, cultura, religione, ceto, educazione e professione conoscono, sperimentano, coltivano, inseguono, scrutano negli altri – “Tutte le società abbondano di emozioni” afferma Martha Nussbaum nell’introduzione del suo libro Emozioni politiche [11]. Il loro funzionamento, apparentemente semplice ed intuitivo, implica in realtà complessi collage di risposte chimiche e neurali, di mediatori, di circuiti, di sinapsi, che hanno la funzione biologica di produrre una reazione specifica ad uno stimolo esterno – sapore, odore, musica, oggetto, evento, persona, immagine mentale, ecc. – e di organizzare lo stato interno dell’organismo per prepararlo alla reazione specifica, con una insostituibile valenza evolutiva: in termini darwiniani, la principale funzione delle emozioni consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza. Proprio Charles Darwin, nel suo pionieristico L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo (1872) [12], ci ha insegnato come le reazioni emotive primarie consistano in un insieme di risposte affinatesi nel corso dell’evoluzione in relazione a vantaggi adattativi. In particolare, le emozioni negative, evolutivamente più primitive, quali rabbia, paura e disgusto, ci portano a modificare la nostra situazione per attaccare o fuggire, affrontare o evitare qualcosa o qualcuno. Invece le emozioni positive come gioia o felicità, e in generale tutti gli stati d’animo collegati a gradimento, benessere, piacere, godimento, quindi favorenti l’avvicinamento all’altro e l’affiliazione sociale – funzioni più recenti (cosiddetta “neocorteccia” cerebrale) espressioni della specializzazione degli emisferi cerebrali –, ci fanno avanzare ed esplorare l’ambiente, inclusi i suoi abitanti.

Le emozioni si presentano in due tipi di circostanze: quando l’organismo elabora stimoli rappresentati da sensazioni, oggetti, esseri viventi o particolari condizioni – un paesaggio, un evento, una situazione (impossibile non pensare a “Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi ritrovarsi a volare” di Mogol-Battisti); oppure quando la mente evoca dalla memoria sensazioni, oggetti, esseri viventi o situazioni e li rappresenta come immagini mentali, processo che può verificarsi anche solo inconsciamente in seguito a stimoli ambientali. Tra i fattori facilitanti ambientali è noto l’effetto del contesto: se si reinstaura lo stesso setting – odore, musica, situazione, “atmosfera”, ecc., –il ricordo riaffiora, a volte improvvisamente. Il fenomeno è conosciuto in neuropsicologia come effetto “petites Madeleines” [13], in relazione all’esperienza raccontata da Marcel Proust nel primo volume della Recherche – La strada di Swann, in cui il profumo dei dolcetti fatti in casa (appunto le “petites Madeleines”) gli faceva tornare prepotentemente in mente immagini ed emozioni di quando era piccolo e di cui si era apparentemente “dimenticato”.

La percezione di uno stimolo emotivo induce quasi automaticamente una serie di complesse modificazioni corporee, ben note a tutti noi: “quando lo vedo mi batte forte il cuore”, “sono rimasto paralizzato dalla paura”, “schiumavo di rabbia”, ecc. E meno male che è così. Nel 1890, William James, nei suoi Principi di psicologia, ammoniva: “se le modificazioni organiche non tenessero dietro alla percezione, quest’ultima sarebbe soltanto cognitiva, pallida, fredda, destituita di colore emotivo” [14].

 

3. Disturbi della funzione gustativa ed olfattiva

Con il passare degli anni il gusto e l’olfatto diminuiscono [15], cosicché per provare le stesse sensazioni gustative occorre aumentare la quantità del cibo. Il senso del gusto comincia a scemare consistentemente verso i 60 anni e contemporaneamente diminuisce l’olfatto, quest’ultimo in modo assai più rapido. La perdita di questi due sensi è all’origine del ridotto appetito delle persone anziane, che quindi tendono ad alimentarsi di meno, rischiando malnutrizione e malattie. La perdita del gusto negli anziani sarebbe legata anche a una riduzione delle papille gustative e alla minore funzionalità di quelle presenti. Questo si somma ad altre cause, come il calo della produzione di saliva (che contribuisce al senso del gusto), la scarsa salute della cavità orale, la perdita dei denti, l’uso di farmaci, la presenza di condizioni irritative e/o infiammatorie croniche a carico della bocca, del naso e della lingua.

I disturbi propriamente patologici della sensibilità gustativa ed olfattiva sono tutto sommato rari. Va sottolineato che le differenze individuali di sensibilità gustativa ed olfattiva sono considerevoli. Esistono persone che non sono in grado di percepire alcun sapore o alcun odore, condizioni che vanno sotto il nome rispettivamente di ageusia ed anosmia. Le condizioni in cui le soglie di percezione gustativa ed olfattiva sono innalzate rispetto ai valori normali, per cui il senso del gusto e dell’olfatto diminuiscono, vengono dette ipogeusia ed iposmia; al contrario, l’ipersensibilità gustativa, per la quale il soggetto percepisce sapori ed odori anche in presenza di quantità minime di sostanze, è chiamata ipergeusia e iperosmia, rispettivamente. I termini disgeusia e disosmia indicano invece una sensibilità gustativa distorta, che non corrisponde allo stimolo percepito. Sono sintomi che possono avere cause di ordine locale (rapportabile cioè alla lingua, al naso e/o all’apparato orofaringeo) o sistemico (riferito cioè alla disfunzione di altri distretti, organi e apparati dell’organismo).

Le alterazioni qualitative della funzione gustativa ed olfattiva si distinguono in problemi nel trasporto, quando lo stimolo non riesce a raggiungere il recettore, per esempio a causa di disfunzione salivare, o di una infezione del cavo orale; danno a livello degli organi di senso periferici (radioterapia, chemioterapia, ustioni, traumi, ma anche semplicemente per un forte raffreddore o per l’azione tossica del tabacco e dell’alcool nei forti fumatori e bevitori); danno dei nervi periferici (chirurgia della lingua, tumori, traumi, paresi dei nervi cranici) o del sistema nervoso centrale, come occorre in certi tumori, in particolari casi di ictus e in alcune forme di demenza, epilessia e sclerosi multipla, quando sono colpite le strutture cerebrali critiche per la sensazione gustativa. In alcuni di questi casi, si può avere la percezione di sapori – in genere sgradevoli – in assenza di stimolo esterno reale, si tratta delle allucinazioni gustative od olfattive presenti tipicamente in alcune forme epilettiche o encefalitiche localizzate nei lobi temporali del cervello.

Varie forme di ageusia e disgeusia, così come anosmia, iposmia, disosmia (parosmia, fantosmia) possono essere causate da infezioni locali e sistemiche: sono noti a tutti gli effetti sul gusto e sull’olfatto della recente pandemia di COVID [16].

 

 4. Tutti i gusti son gusti

Se partiamo dal concetto di gusto come percezione gustativa di un sapore, ci appare scontato inferire che il giudizio di gusto è puramente soggettivo: inutile chiedersi perché a una persona piace la birra e l’altra detesta il formaggio o il pomodoro. Non sembrano quindi esserci discussioni sul fatto che il giudizio di gusto su quello che ingeriamo, sia un cibo o una bevanda, e che ci fa dire (o no) che è buono appare assolutamente soggettivo, insindacabile, non criticabile.

In realtà, accade che il trovarci di fronte a gusti molto diversi dai nostri, specialmente quando hanno a che fare con cibi o sapori a cui non siamo abituati, ci inducano effetti sgradevoli, evocando in certi casi una vera e propria sensazione di disgusto. Si pensi alla sensazione che può suscitare in noi europei cibarsi degli occhi di tonno o della zuppa di pipistrello, molto amati in Thailandia e Cina, o del Grasshopper Taco, un piatto messicano a base di insetti e loro larve, cavallette, uova di formica. È peraltro attuale il dibattito sull’utilizzo anche in Europa di farine di insetti per ovviare alla carenza di grano. Ma si pensi alle lumache tanto amate dai francesi, immangiabili per gran parte dell’umanità, o al Casu Marzu, un formaggio sardo in cui la mosca casearia depone le uova da cui nascono delle larve che si cibano del formaggio, piatto che ha schiere di estimatori anche al di fuori della regione di origine. Questi cibi, che per alcuni abituati da sempre a consumarli sono considerati prelibatezze, possono ingenerare in molte persone una sensazione di disgusto. Quindi, pur ritenendo il gusto una sensazione soggettiva, su cui non si può discutere – “de gustibus non est disputandum” –, in realtà spesso facciamo fatica ad adeguarci ai gusti degli altri, e non solo nell’ambito del gusto alimentare.

Ma come nascono e come si sviluppano i nostri gusti, e come si spiegano tali differenze?

In generale tutti gli animali hanno delle predisposizioni innate verso i cibi, che li portano a gradire alcuni sapori ed odori (in genere dolci) e a rifiutarne altri (amari) ed abbiamo visto che sembrano esistere fattori genetici che causano differenze percettive. Esistono evidenze a favore dell’esistenza negli esseri umani di reazioni innate del gusto, tuttavia è innegabile che vari fattori intervengono nelle diverse età della vita dando luogo a influenze e condizionamenti che rendono ragione di consistenti differenze individuali, familiari, sociali e culturali. Si possono fare analoghe considerazioni per l’olfatto. Alcune specie animali utilizzano il cattivo odore come difesa dai predatori, meccanismo geneticamente determinato.

Nel genere umano certe sensazioni odorose appaiano universali: il profumo di una rosa, il bouquet di un buon vino, l’aroma del caffè, il profumo del pane appena sfornato, sembrano essere apprezzati in buona parte del mondo. Per contro l’odore delle feci, dei prodotti di degradazione del corpo, ecc. inducono repulsione.

Ci sono invece odori che piacciono ad alcune persone, mentre sono intollerabili per altre. Per esempio l’odore del salmastro che si trova nei porti oppure l’odore di disinfettante che aleggia negli ospedali. Spesso il gradimento o meno di queste percezioni olfattive si ricollega ad esperienze precedenti conservate in memoria.

Insomma, si può ragionevolmente affermare che, a fronte di alcuni elementi fondamentali e universali della percezione gustativa ed olfattiva e soprattutto della reazione emotiva che ne deriva, le sensazioni prodotte da stimoli gustativi ed olfattivi possono variare in relazione a caratteristiche individuali apparentemente innate, e condizionamenti ambientali, sociali e culturali.

 

5. Condizionamento, adattamento e ruolo dell’ambiente

Molte delle nostre preferenze di gusto sono legate alle diverse esperienze effettuate. Nel corso della vita i gusti vengono acquisiti e si modificano in ragione di diversi condizionamenti – siano influenze passive o insegnamenti attivi –, i quali agiscono su di noi fin da piccoli.

In primis, gli animali acquisiscono capacità di scelta in base alle proprietà oro-sensoriali dei cibi e delle loro conseguenze post-ingestive. In questo modo gli animali tendono a preferire sapori associati con effetti nutrizionali positivi, mentre, se sperimentano disturbi e/o malessere viscerale consumando sostanze alimentari nuove, tenderanno in futuro a evitare quel sapore. Il contesto familiare, sociale ed ambientale agisce poi come elemento condizionante, tanto che spesso esperienze simili nella percezione del gusto di diversi tipi di sapori e alimenti causano preferenze simili. Questo rende ragione delle differenti abitudini alimentari che si riscontrano nelle diverse popolazioni. Il motivo per cui ci piacciono o non ci piacciono alcuni alimenti deriva quindi da una complessa interazione tra predisposizioni innate, condizionamento del gusto – che inizia nel grembo materno e continua fino in età avanzata –, adattamento e fattori biologici.

Negli umani, la definizione delle preferenze di gusto inizia già a livello fetale. Infatti i sapori contenuti negli alimenti ingeriti dalla mamma gravida passano il filtro placentare, giungono nel liquido amniotico e vengono conosciuti e “gustati” dal feto: verso la dodicesima settimana di gestazione il feto inizia a deglutire, e i composti aromatici contenuti nel liquido amniotico stimolano i recettori del gusto (le prime papille gustative appaiono intorno all’ottava settimana di gestazione). Anche lo sviluppo dell’olfatto comincia già dopo poche settimane di vita in utero, in parallelo e associazione con quello del gusto: la deglutizione  del liquido amniotico propone al feto i sapori e gli odori della madre e dei cibi da lei assunti. Il feto è così esposto ad una grande quantità di odori e sapori diversi, tra cui vari zuccheri (es. glucosio, fruttosio), acidi grassi, aminoacidi, proteine e sali. Questo favorirà alla nascita l’attaccamento del neonato al seno e al latte materno, ma anche lo preparerà a gusti e ad odori nuovi e quindi ad esplorare il mondo che lo circonda. Alla nascita, il suo spiccato e già sviluppato senso dell’olfatto permetterà al piccolo di riconoscere la mamma ancor prima che con la vista, ancora poco sviluppata, e lo guiderà verso il seno e il latte materno, soddisfacendo quindi le sue basilari esigenze di nutrimento e rassicurazione.

Nei neonati, il gusto è il più importante e sviluppato di tutti i sensi, ed essi in particolare mostrano un elevato indice di gradimento per il gusto dolce, cui reagiscono sempre con una espressione facciale di tranquillità e soddisfazione. Al contrario i sapori acido e amaro vengono respinti a labbra serrate. Altro periodo importante è quello dell’allattamento. Il latte materno contiene numerosi aromi che la madre assume nella dieta e può influenzare le successive preferenze.

Ma quali sono i fattori che condizionano le preferenze e le avversioni, e in definitiva le nostre scelte alimentari?

Gli impulsi fondamentali che ci spingono a mangiare o meno sono naturalmente la fame e la sazietà, ma ciò che scegliamo di mangiare non è determinato unicamente da bisogni fisiologici o nutrizionali. Certamente fattori fondamentali che influenzano la nostra scelta alimentare sono le proprietà sensoriali dei cibi, come il sapore, l’odore o l’aspetto. Una volta che un sapore o un alimento vengono accettati, questi possono anche influenzare le preferenze o il gradimento di nuovi sapori o alimenti. Il cosiddetto apprendimento sapore-sapore indica che i nuovi alimenti vengono più facilmente accettati se consumati insieme a piatti già noti piuttosto che da soli. Questo effetto è più marcato per gli stimoli negativi: se le proprietà sensoriali di un alimento sono legate a sensazioni o reazioni negative (nausea, vomito durante o dopo il consumo), si può sviluppare un’avversione per quell’alimento che può durare per il resto della vita, indipendentemente dal fatto che quell’alimento costituisca la causa stessa della reazione oppure se è semplicemente stato consumato nello stesso momento del malessere. Ovviamente anche le sensazioni gustative ed olfattive gradevoli condizionano le preferenze alimentari.

In genere, il consumo di alimenti ad elevata carica energetica genera reazioni positive negli animali – umani inclusi –, inducendo una preferenza per tali alimenti: si tratta dell’effetto “apprendimento sapore-nutrimento”. La preferenza per piatti molto energetici e ricchi di grassi è influenzata anche dal contesto sociale. Noi tutti, fin da bambini, tendiamo ad amare gli alimenti che abbiamo mangiato in situazioni piacevoli, mentre spesso rifiutiamo i cibi che associamo ad eventi spiacevoli. Ciò è a sua volta condizionato dalla scelta di alimenti per occasioni specifiche. Cibi gustosi con elevata carica energetica, elevato contenuto in grassi e zuccheri – come i dolci – vengono solitamente serviti in occasioni piacevoli come le feste o quando vengono ospiti in visita. Al contrario, specie nei bambini, alimenti meno saporiti e poco “festaioli”, come ad esempio le verdure, vengono frequentemente consumati sotto pressione. Questa associazione comporta una doppia percezione negativa: da un alto aumenta il gradimento per cibi altamente energetici e saporiti, e dall’altro l’avversione per gli altri.

Spesso si tende inoltre a preferire sapori e odori conosciuti. È noto che in genere è necessaria una esposizione ripetuta per arrivare ad apprezzare certi sapori. Ciò significa che piacciono di più gli alimenti e le bevande che vengono consumati con regolarità e che, di conseguenza, hanno un sapore acquisito. Ad esempio, il caffè è una bevanda che piace solo in seguito al consumo ripetuto. Spesso ci si accosta al suo sapore amaro con molta attenzione e con l’aiuto di latte e zucchero. Lo stesso si verifica per l’odore del tartufo, generalmente repulsivo. Lo sviluppo di questa preferenza di gusto è stata definita effetto di mera esposizione, alla cui base vi sarebbe un principio di sicurezza biologica: attraverso un’attenta degustazione per scoprire eventuali conseguenze negative (intolleranza), i nostri antenati hanno raccolto le diverse esperienze di gusto. Tuttavia, il nostro comportamento alimentare si basa raramente sulla mera esposizione, utilizza piuttosto l’insieme di emozioni, aspetti sociali e processi digestivi che possono influenzare gli effetti della mera esposizione.

La scelta degli alimenti non si basa quindi soltanto su preferenze gustative ed olfattive individuali, ma è condizionata anche da fattori sociali, emozionali e cognitivi: il gradimento e il rifiuto di un cibo, le nostre preferenze e le avversioni, sono influenzate da conoscenze e atteggiamenti correlati alla dieta e alla salute, particolari abitudini e attitudini familiari, l’educazione e il contesto sociale. Anche quando si mangia da soli, la scelta degli alimenti è influenzata da fattori sociali perché gli atteggiamenti e le abitudini si sviluppano attraverso l’interazione con gli altri. Per determinati individui, possono essere particolarmente importanti i valori personali, le esperienze di vita, o le capacità (per es. culinarie), le convinzioni di una persona (per es. su temi come i cibi biologici e gli OGM, i vini naturali, il veganismo), e le percezioni, quali le barriere percepite per seguire una dieta sana. Anche fattori culturali, religiosi ed economici possono condizionare le nostre preferenze alimentari, così come istruzione, fattori etnici e geografici.

Come si vede, il gusto e l’olfatto, a fronte di alcuni elementi di innatismo, possono essere grandemente condizionati e volutamente educati. Non ci sorprende quindi come gusto e olfatto possano variare nelle diverse etnie, a seconda delle abitudini sociali e culturali e delle influenze religiose.

 

 6. Dalle neuroscienze al neuromarketing

Se è vero che si può condizionare il gusto delle persone, è chiaro che ciò non può sfuggire a chi è interessato a proporre e vendere ai consumatori i propri prodotti alimentari, nella piccola e nella grande distribuzione: l’industria del marketing, che, con l’avvento delle conoscenze sul cervello, si è indirizzata al neuromarketing.

Sono ormai passati oltre 60 anni da quando nel 1957 Vance Packard scrisse I persuasori occulti, in cui metteva in guardia contro l’uso della psicologia sociale per influenzare le scelte dei consumatori e incrementare gli acquisti, in particolare per mezzo della pubblicità subliminale. Oggi qualcosa di simile sembra accadere con il neuromarketing, disciplina volta a comprendere che cosa effettivamente accade nel cervello umano quando si fa una scelta d’acquisto, non solo alimentare, al fine di determinare il livello di efficacia promozionale o pubblicitaria della comu­nicazione. Una specie di finestra aperta sulla mente umana, come afferma Martin Lindstrom [17], la chiave per aprire la porta su quella che egli definisce buyology – traducibile in italiano con il brutto termine acquistologia – ossia la scienza che si prefigge di far luce sui pensieri inconsci, le emozioni e i desideri che guidano le nostre quotidiane decisioni d’acquisto, in campo alimentare e non.

Il “paradosso della Pepsi” è un microcosmo dell’efficacia del condizionamento commerciale. In test cosiddetti ciechi, dove non si conosce la bevanda – Coca o Pepsi –, le persone tendono a preferire la Pepsi o tuttalpiù il gradimento è diviso al 50%, ma i dati di vendita sono nettamente a favore della Coca Cola [18].

Ne consegue che è possibile guidare le scelte alimentari delle persone attraverso piccoli o grandi condizionamenti, sulla cui eticità è lecito discutere. Ad esempio, nella maggior parte dei supermercati moderni il banco del fornaio è vicino all’ingresso perché è dimostrato che il profumo del pane appena sfornato stimola l’appetito e invoglia all’acquisto di altri generi alimentari, incrementando così le vendite del supermercato. Allo stesso modo si sceglie di mettere alcuni prodotti in scaffali ad altezza occhi, perché sono quelli più consumati. Spruzzare aromi di vaniglia nelle corsie dei supermercati favorisce gli acquisti. In alcune banche USA si è deciso di profumare i libretti di assegni al profumo di rosa. Anche la musica di sottofondo nei ristoranti è studiata per favorire i consumi e trattenere più a lungo i commensali. Le illusioni ottiche possono favorire la scelta di un piatto piuttosto che un altro. L’elenco è infinito e vi partecipano meccanismi come persuasione occulta, pubblicità, contagio sociale, o il cosiddetto effetto “spintarella” (nudge), che ha valso al suo studioso più autorevole, Richard Thaler, il Premio Nobel per l’economia nel 2017, fenomeno che, seppur nato per fini nobili (es. evitare gli sprechi, l’inquinamento, migliorare le condizioni di salubrità e igiene di certi luoghi), è pur sempre un condizionamento occulto, quindi da alcuni ritenuto non etico.

Inoltre è sempre più diffuso l’effetto vintage: si sa che fare leva sui sentimenti e sulle emozioni è una strategia di comunicazione terribilmente efficace. Se quell’emozione è la nostalgia, non stupisce riscontrare che oggi leffetto nostalgia impera nel marketing: sempre più aziende infatti mirano a coinvolgere il proprio pubblico facendo emergere vecchi ricordi del passato, in particolare quelli che risalgono all’infanzia o all’adolescenza. La nostalgia è oggi uno dei più potenti mezzi di persuasione all’acquisto e di induzione pubblicitaria, rappresentando il tema dominante che sottende molte strategie contemporanee di marketing e pubblicità, da cui il termine di “retromarketing”.

Infine il prezzo. Ad esempio quanto più costa un alimento, un vino, tanto più la gente dirà che è buono, indipendentemente dal suo gusto e dal suo sapore. È quanto ha rivelato uno studio elaborato da alcuni ricercatori californiani, che hanno scoperto che poiché le gente si aspetta che il vino che costa di più sia di qualità migliore, si auto-convince che i vini più cari siano più buoni rispetto a quelli meno costosi. Lo studio, pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences” [19], rileva che queste aspettative di qualità stimolano l’attività nella corteccia orbito-frontale laterale media, la parte del cervello che registra il piacere.

Ritorna alla mente la descrizione della madre di Dino ne La noia di Alberto Moravia: “[Ella] non aveva né gusto né cultura, né curiosità, né amore del bello; il suo criterio di scelta in qualsiasi acquisto era pur sempre il prezzo, il quale, quanto più era alto, tanto più le faceva supporre che l’oggetto in vendita avesse delle qualità di bellezza, raffinatezza, e originalità che lei, altrimenti, non sarebbe stata capace di ravvisarvi”.

 

Conclusioni

Questo breve excursus sulle neuroscienze dei sapori e degli odori ci suggerisce che, se è vero che l’emozione che un odore o un sapore sanno suscitare è sempre personale e soggettiva, diversi meccanismi di condizionamento sono possibili e spesso operanti influenzando le nostre scelte senza che ne siamo consapevoli.

 

Bibliografia

1. Brillat-Savarin, A. Fisiologia del gusto. Sellerio: Palermo, 1998.

2. Running, C.A.; Craig, B.A.; Mattes, R.D. Oleogustus: The Unique Taste of Fat. Chem Senses 2015, 40, 507-516.

3. Hänig, D.P. Zur Psychophysik des Geschmackssinnes. Philosophische Studien 1901, 17.

4. Boring, E.G. Sensation and Perception in the History of Experimental Psychology. Appleton: New York, NY, 1942.

5. Collings, V.B. Human taste response as a function of locus of stimulation on the tongue and soft palate. Perception &Psychophysics 1974, 16, 169-174.

6. Spence, C. The tongue map and the spatial modulation of taste perception. Curr. Res. Food Sci. 2022, 5, 598-610.

7. Carleton, A.; Accolla, R.; Simon, S.A. Coding in the mammalian gustatory system. Trends Neurosci. 2010, 33, 326-334.

8. Hume, D. La regola del gusto e altri saggi. Abscondita: Milano, 2006.

9. Sheperd, G. All’origine del gusto. La nuova scienza della neurogastronomia. Codice edizioni: Torino, 2009.

10. Marinetti, F.T. La cucina futurista. Sonzogno: Milano, 1932.

11. Nussbaum, M. Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia. Il Mulino: Bologna, 2014.

12. Darwin, C. L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872). Edizione a cura di Paul Ekman. Bollati Boringhieri: Torino, 2012.

13. Lucchelli, F.; Muggia S.; Spinnler, H. The ‘Petites Madeleines’ phenomenon in two amnesic patients. Sudden recovery of forgotten memories. Brain. 1995, 118, 167-183.

14. James, W. Principi di psicologia (The Principles of Psychology). Henry Holt & Co: New York, 1890.

15. Murphy, C. The chemical senses and nutrition in older adults. J. Nutr. Elder. 2008, 27, 247-265.

16. Mastrangelo, A; Bonato, M; Cinque, P. Smell and taste disorders in COVID-19: from pathogenesis to clinical features and outcomes. Neurosci. Lett. 2021, 748, 135694.

17. Lindstrom, M. Neuromarketing. Apogeo: Milano, 2009.

18. McClure, S.M.; Li, J.; Tomlin, D.; Kim, S.; Cypert, K.S.; Montague, L.M.; Montague, P.R. Neural Correlates of Behavioral Preference for Culturally Familiar Drinks. Neuron 2004, 44, 79-387.

19. Plassmann, H.; O’Doherty, J.; Shiv, B.; Rangel, A. Marketing actions can modulate neural representations of experienced pleasantness. PNAS 2008, 105, 1050-1054.

 

Note

1 In realtà, i sensi umani sembrano di più, almeno una decina. Vengono infatti attualmente considerati anche l’equilibrio, la termopercezione (capacità di percepire le variazioni di temperatura), il dolore, la propriocezione (capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli). Anche l’attrazione sessuale, che si produce attraverso uno specifico organo sensibile ai ferormoni sito nel naso di molti animali ed in parte atrofizzato negli umani, può essere considerata un senso (già nel XVIII secolo l’eclettico politico e gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin nel suo trattato Fisiologia del gusto [1] citava l’amore fisico o genesio come il sesto senso).
Considerando tutte le varie specie animali, l’elenco dei sensi si allunga ulteriormente: la ecolocazione (capacità di orientarsi sfruttando l’eco degli ultrasuoni che emettono) dei pipistrelli e dei delfini, il sistema di elettrolocazione per il rilevamento di campi elettrici degli squali, di magnetolocazione dei piccioni e dei salmoni, la capacità di percepire gli ultravioletti (es. api) e gli infrarossi (es. serpenti).

2 Si tratta di un riconoscimento satirico che viene assegnato annualmente a dieci ricercatori autori di ricerche strane, divertenti, e perfino assurde, comunque rigorose sul piano della metodologia scientifica.