Elementi per la pianificazione di una transizione energetica sostenibile in Italia

Alessandro Guzzini1, Marco Pellegrini2, Cesare Saccani3

1Ricercatore, Impianti Industriali Meccanici, Dipartimento di Ingegneria Industriale, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; 2Professore Associato, Impianti Industriali Meccanici, Dipartimento di Ingegneria Industriale, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; 3Professore Ordinario, Impianti Industriali Meccanici, Dipartimento di Ingegneria Industriale, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; Accademico Corrispondente Residente

Abstract

Starting from analysing the Italian strategy for the ecological transition, this paper faces the sustainability of energy planning. While the need to decarbonise our economy is a matter of fact, the strategy to reach the carbon neutrality objective in 2050 must be more convincing. In particular, two aspects of renewable energy transition are analysed in this paper: spatial energy density and raw material consumption. The comparison between traditional fossil energy sources and renewable ones (in particular, solar and biomass energy), and related storage capacity demand through batteries or hydrogen generation, shows a much greater impact of the latter on land and raw materials consumption. The substantial implications reverberate on the techno-economical, environmental, social and political levels. The paper concludes with suggestions on integrating energy planning strategy with more sustainable solutions, including nuclear power plants.

Keywords

Energy planning, Decarbonisation, Renewable energy, Land consumption, Energy storage.

© Guzzini, Pellegrini, Saccani, 2024 / Doi: 10.30682/annalesps2402e

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1. Introduzione

Il piano per la transizione ecologica (PTE) [1], approvato nel marzo 2022, fornisce un inquadramento generale sulla strategia per la transizione ecologica italiana all’interno della più complessa articolazione di interventi previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) ed il RePowerEU [2]. In particolare, il PTE definisce obiettivi relativi alla decarbonizzazione (ovvero alla riduzione delle emissioni di CO2 equivalenti), alla mobilità sostenibile, al miglioramento della qualità dell’aria, al contrasto al consumo di suolo e al dissesto idrogeologico, alla tutela delle risorse idriche, al ripristino e rafforzamento della biodiversità, alla tutela e sviluppo del mare, ed alla promozione dell’economia circolare, della bioeconomia e della agricoltura sostenibile.

Dalla analisi degli obiettivi di decarbonizzazione e, a cascata, degli altri obiettivi, che appaiono gerarchicamente e strategicamente subordinati al primario obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti, emerge la visione riassunta in Tab. 1, cioè di un poderoso incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili e della progressiva elettrificazione dei trasporti e dei consumi per riscaldamento e raffrescamento degli edifici.

 

Tab. 1. Sintesi degli obiettivi del PTE rispetto alla decarbonizzazione.

 

In estrema sintesi, il PTE punta sulla elettrificazione del settore termico e dei trasporti e, allo stesso tempo, promuove l’espansione delle fonti rinnovabili non programmabili quali fotovoltaico ed eolico. È utile iniziare l’analisi di questo piano partendo con un semplice quesito: è possibile affermare, ad oggi, che l’energia rinnovabile sia anche ecologica, ovvero sostenibile?

2. Le definizioni di transizione ecologica, energia rinnovabile e sostenibilità

La Treccani [3] definisce la transizione ecologica come il “processo tramite il quale le società umane si relazionano con l’ambiente fisico, puntando a relazioni più equilibrate e armoniose nell’ambito degli ecosistemi locali e globali”. Inoltre, in senso più limitato e concreto, la Treccani definisce la transizione ecologica come il “processo di riconversione tecnologica finalizzato a produrre meno sostanze inquinanti”. In questo contesto di transizione ecologica, occorre quindi valutare quale sia la sostenibilità derivante dall’utilizzo delle fonti rinnovabili.

Contrariamente a quanto possa apparire ad una prima occhiata, i due termini, sostenibile e rinnovabile, non sono sinonimi. Infatti, esiste una sostanziale differenza tra i concetti di rinnovabilità e sostenibilità. L’energia rinnovabile è prodotta a partire da fonti che si rigenerano naturalmente ad una velocità maggiore o uguale rispetto a quella con cui vengono consumate, ovvero quando le fonti abbiano una durata praticamente illimitata rispetto al nostro orizzonte temporale. Sono universalmente riconosciute come fonti di energia rinnovabile il sole, il vento, le maree, la geotermia e le biomasse (queste ultime due scontano chiare prescrizioni per poter essere definite rinnovabili). La sostenibilità, invece, si riferisce all’impatto che l’utilizzo di una determinata risorsa ha sotto diversi punti di vista, a partire da quello ambientale (come le emissioni inquinanti, ma anche le emissioni clima-alteranti, il consumo di suolo e di risorse idriche o di materie prime), includendo anche tematiche di natura tecnica (come l’efficienza nella produzione, distribuzione e utilizzo di un determinato bene), economica e sociale. Misurare la sostenibilità non è affatto semplice [4], e richiede un approccio complesso e multidisciplinare volto a confrontare e pesare impatti di natura differente tramite indici quali Global Warming Potential (GWP), perdita di biodiversità o uso dell’acqua.

3. La densità energetica ed il consumo di suolo

La densità energetica rappresenta uno degli elementi spesso erroneamente trascurati quando si valuti una fonte di energia. Definiamo la densità energetica (o spatial energy density) come il rapporto tra il quantitativo di energia prodotto in un determinato periodo di tempo (ad esempio, in un anno) da uno specifico impianto o tecnologia e la superficie di suolo occupata per produrre quel quantitativo di energia. Per meglio chiarire il concetto, si riporta un semplice esempio tratto da un caso reale.

La centrale di Altomonte (Cosenza) produce energia elettrica con un ciclo combinato alimentato a gas naturale, ovvero la più diffusa e performante soluzione tecnologica per produrre elettricità bruciando quel combustibile [5]. La centrale ha una potenza nominale installata pari a 800 MW, produce annualmente circa 6.4 TWh di energia elettrica e occupa una superficie all’incirca pari a 78000 m2, corrispondenti a circa 10 campi da calcio. Dividendo l’energia prodotta in un anno dalla centrale per la superficie da essa occupata, otteniamo un valore di produzione “specifica” pari a circa 82 MWh/m2, il quale esprime la densità energetica dell’impianto, ovvero la sua capacità di produrre energia per m2 di suolo occupato.

Immaginiamo, ora, di voler utilizzare moduli fotovoltaici con un rendimento di picco pari al 20% (pannelli di media qualità) e di installarli nella stessa località del caso precedente, ovvero ad Altomonte. Altomonte è caratterizzata da un numero anno di sole equivalenti, ovvero il numero di ore annue durante le quali un impianto, ipoteticamente, genera elettricità alla potenza nominale, che si assume pari a 1500 ore. Questo significa che un impianto fotovoltaico con potenza di picco installata pari ad 1 kW, mediamente in un anno può generare 1500 kWh. Quindi, nella migliore delle ipotesi, con un impianto fotovoltaico in un anno ad Altomonte è possibile produrre 0.30 MWh/m2. In realtà, se si analizzano i dati reali relativi alla produzione degli impianti fotovoltaici presenti nella Provincia di Cosenza (in cui si trova il comune di Altomonte), si scopre che i 335 MW di picco installati hanno prodotto nel 2023 in totale 361.7 GWh di energia [6], ovvero un numero annuo di sole equivalenti pari a 1080 ore, quasi il 30% in meno di quanto stimato utilizzando le normali procedure di calcolo. Ne segue che in media gli impianti fotovoltaici siti ad Altomonte sono in grado di produrre circa 0.22 MWh/m2. Quindi, il rendimento complessivo dell’intero impianto fotovoltaico risulta enormemente influenzabile da fenomeni non sempre evitabili come l’ombreggiatura ed il non perfetto orientamento rispetto alla radiazione solare, oppure lo sporcamento del pannello a causa di polvere e inquinamento, o il danneggiamento di singoli pannelli, che penalizzano la resa dei pannelli integri ma collegati alla medesima stringa del pannello danneggiato. Nel nostro esempio, inoltre, abbiamo a che fare con una taglia di impianto di centinaia di MW, ovvero di un multiplo della potenza attualmente installata nell’intera provincia. Occorre quindi valutare anche gli aspetti legati alla gestione di un ipotetico impianto di così grande taglia, e che sono incrementati esponenzialmente. Difatti, mentre l’impianto domestico è costantemente vigilato dall’utente finale, quelli di taglia industriale scontano problemi di scala che rendono complesse le operazioni di monitoraggio e analisi. Così, sulla base dell’esperienza maturata dagli scriventi, otteniamo per l’impianto fotovoltaico da comparare con la centrale di Altomonte una più realistica densità energetica pari a 0.11 MWh/m2. Possiamo tradurre questo numero nella superficie dell’impianto fotovoltaico necessario per replicare il medesimo output (annuo) generato dalla centrale di Altomonte, ovvero quasi 60 milioni di metri quadrati di superficie occupata dall’impianto fotovoltaico, o 4.3 GW di potenza di picco installata. E tutto ciò senza prendere in considerazione la necessità di accumuli (tramite batterie, o la conversione di energia elettrica in idrogeno) derivanti dal bisogno di far coincidere produzione ed utilizzo di energia elettrica. In Fig. 11 viene mostrato il confronto tra le due opzioni: centrale a gas naturale e centrale fotovoltaica. L’esempio dimostra plasticamente come l’impianto fotovoltaico sconti una densità energetica oltre mille volte inferiore rispetto agli impianti alimentati a fonte tradizionale e che sicuramente la tecnologia fotovoltaica produce un impatto sul consumo di suolo che è enormemente maggiore rispetto a quanto accade con una centrale tradizionale a ciclo combinato. Il tema del consumo di suolo associato al fotovoltaico viene ad essere parzialmente o completamente mitigato qualora si adottino soluzioni che prevedano l’installazione dei pannelli in maniera integrata su infrastrutture esistenti, quali i tetti degli edifici. D’altro canto, il frazionamento della potenza da impianti centralizzati a impianti distribuiti comporta tipicamente un incremento dei costi e delle tempistiche di realizzazione.

Fig. 1. Confronto tra densità energetica della centrale a ciclo combinato di Altomonte e densità energetica di un impianto fotovoltaico equivalente in termini di resa energetica annua.

 

Un altro esempio interessante è quello della biomassa. La Superficie Agricola Utile (SAU) italiana è pari a circa 13 milioni di ettari [7]. Immaginiamo di voler coltivare l’intera SAU italiana a biomassa dedicata, ovvero per soli scopi energetici, trascurando volutamente gli impatti (devastanti) sulla filiera agro-alimentare che tale approccio produrrebbe. Ebbene, poiché la resa per ettaro media da colture dedicate la possiamo indicare nell’intorno dei 200 GJ/anno [8], ovvero una densità energetica pari a circa 0.005 MWh/m2 (senza considerare il successivo processo di combustione o gassificazione e relativi rendimenti), se ne deduce che per soddisfare la domanda di energia primaria italiana attingendo alle sole biomasse dovremmo coltivare circa 38 milioni di ettari di terreno con biomassa dedicata, che è il triplo della SAU in Italia.

La letteratura scientifica è concorde nel rilevare una limitata densità energetica delle fonti rinnovabili di energia rispetto alle fonti tradizionali [9], anche estendendo l’analisi oltre l’impianto per la produzione di energia ed includendo nell’analisi il consumo di suolo collegato alla estrazione, trasformazione, trasporto e gestione a fine vita di materiali e risorse impiegati. Pertanto, con il crescere della quota di energia rinnovabile che introduciamo nel nostro sistema energetico, aumenta inevitabilmente, ed in maniera esponenziale, il consumo di suolo. Occorre quindi accompagnare la pianificazione energetica con una pianificazione territoriale ed urbanistica, se l’installazione di impianti rinnovabili avviene in contesto urbano, ovvero paesaggistica qualora l’installazione avvenga, invece, in area rurale, avendo ben chiaro che la limitata densità energetica delle diverse tecnologie pone la produzione di energia rinnovabile in concorrenza con altre attività che sono “land-consuming”. Difatti, in un contesto urbano, là dove la densità abitativa è maggiore, il consumo di suolo e superfici trova concorrenza con settori e funzioni quali l’edilizia abitativa, produttiva o dei servizi, o le infrastrutture viarie, mentre in ambiente rurale la concorrenza principale è data dall’agricoltura.

4. Il consumo di materie prime

La sostenibilità di un qualsivoglia processo si misura anche in termini di consumi di materie prime, acqua inclusa. Come indicato in Tab. 1, l’obiettivo per l’Italia al 2050 è quello di installare una potenza di picco aggiuntiva pari a 250 GW rispetto ai target ad oggi raggiunti. Oltre al tema del consumo di suolo associato a tale obiettivo, un altro elemento da prendere in considerazione è il consumo di materie prime e dei semilavorati da esse derivati. Si tratta, quindi, di valutare la disponibilità tanto delle materie prime (ovvero capacità estrattiva) quanto dei semilavorati (ovvero capacità produttiva) in relazione alle necessità del nostro Paese. L’energia solare è certamente una fonte svincolata dalla fornitura di Paesi terzi, mentre non è così per la produzione dei dispositivi di conversione (in questo caso i pannelli fotovoltaici) che necessitano di materiali rispetto ai quali l’Italia si trova in una condizione di inadeguata capacità estrattiva e/o produttiva. Pertanto, il tema della transizione da un sistema, quello dei combustibili fossili, che ci lega a forniture da oltre confine, ad un altro, forse rinnovabile, ma non certo meno vincolante in termini di interessi economici e geo-politici, emerge in tutta la sua complicata delicatezza.

Un pannello fotovoltaico è composto da diversi materiali. Se prendiamo, ad esempio, un tradizionale pannello fotovoltaico formato da celle mono-cristalline, possiamo ricondurre la composizione del pannello a quanto riportato in Tab. 2, che è un riadattamento dei dati illustrati in [10]. Se prendiamo, poi, come riferimento per la tecnologia il modello CS1U 410 MS della Canadian Solar [11], abbiamo come parametri utili per le considerazioni che seguiranno una potenza di picco pari a 410 W, con una superficie occupata pari a 2.06 m2 (rendimento STC eguale a 19.89%) ed un peso per modulo pari a 23.4 kg.

 

Tab. 2. Composizione media di un pannello fotovoltaico con celle monocristalline espressa come percentuale in peso (rielaborazione di [10]).

 

Pertanto, considerando il modello preso a riferimento, l’obiettivo al 2050 di installare 250 GW di fotovoltaico aggiuntivo corrisponde alla produzione e installazione di poco meno di 610 milioni di pannelli fotovoltaici, corrispondenti a poco più di 14 milioni di tonnellate di materiale. In Tab. 3 vengono fornite le quantità in massa corrispondenti ad ogni singolo materiale, accompagnate da informazioni in merito alla capacità estrattiva e/o produttiva attuale del medesimo materiale in Italia, Europa, o a livello mondiale, a seconda della disponibilità di dati. Non vengono commentati il componente “scatola di giunzione” e i polimeri per la loro eterogeneità, che renderebbe complessa l’analisi rispetto ai monomateriali, senza fornire, tuttavia, valore aggiunto alle conclusioni.

 

Tab. 3. Quantità di materiale necessario alla produzione e installazione dei 250 GW di fotovoltaico al 2050 in Italia, e confronto con la capacità estrattiva e/o produttiva attuale in Italia, Europa e nel mondo.

 

La Tab. 3 mostra chiaramente come per molti dei materiali che compongono un pannello fotovoltaico, l’Italia non sia neppure lontanamente adeguata sia per capacità estrattiva che produttiva: è il caso, ad esempio, di silicio e argento. Per l’alluminio, l’Italia si caratterizza per essere un produttore di alluminio esclusivamente da riciclo, con una capacità annua che nel 2021 ha raggiunto le 954000 tonnellate [16], mentre la produzione di alluminio primario non è più presente dal 2012. In Italia si producono sia rame che vetro piano, ma in quantitativi annui assolutamente insufficienti per sostenere la domanda prevista di pannelli fotovoltaici.

È quindi del tutto evidente che, a meno di una sostanziale riconversione del sistema produttivo e manufatturiero di filiere esistenti come quelle del vetro, rame e alluminio, e la creazione ex-novo di filiere produttive come quella del silicio, il raggiungimento dell’obiettivo di installazione di pannelli fotovoltaici sarà possibile solo acquistando dall’estero i materiali da assemblare in Italia o, più ragionevolmente (per mere ragioni economiche), acquistando direttamente i pannelli fotovoltaici dall’estero, dove sono già presenti sia le produzioni delle materie prime che quelle dei pannelli fotovoltaici. Da questo punto di vista, la transizione verso le rinnovabili evidenzia da un lato l’opportunità di limitare l’uso di risorse fossili di cui il nostro Paese è scarsamente dotato, ma con il rischio di raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione tramite l’utilizzo di soluzioni impiantistiche e componentistiche che potrebbero renderci tecnologicamente dipendenti dall’estero, mentre nel campo dei combustibili fossili si era creata negli anni una filiera industriale italiana di primo piano a livello mondiale.

Considerazioni analoghe si possono formulare relativamente alla capacità di stoccaggio di energia elettrica, che il PTE traguarda a 100 TWh nel 2050. Di seguito si vanno a valutare due tra le principali alternative (che comprendono anche mini-idraulico e compressione gas inerti): lo stoccaggio in batteria e lo stoccaggio di idrogeno. Si prenda, ad esempio, come riferimento per lo stoccaggio in batteria il prodotto ad oggi sul mercato che offre le maggiori garanzie in termini di qualità e durata, ovvero le batterie al litio. La batteria Megapack prodotta da Tesla [19] ha una capacità di accumulo pari a 2.5 MWh, a fronte di un peso pari a 19.7 tonnellate ed una superficie occupata in pianta pari a circa 1.3 m2. Pertanto, per soddisfare la sola esigenza di accumulo prevista per l’Italia, occorreranno poco meno di 40 milioni di batterie Megapack, corrispondenti ad una superficie netta occupata di poco inferiore a 5300 ettari. Se guardiamo, invece, al contenuto di materiali, e ci concentriamo sul solo litio, poiché mediamente esso è pari all’1.2–2.0% in peso della batteria [20], per la transizione italiana saranno necessari circa 12.5 milioni di tonnellate di litio. Vale la pena ricordare che nel 2021 la produzione mondiale di litio era pari a poco meno di 106000 tonnellate [21]. Pertanto, se è pur vero che, in prospettiva, la possibilità di riciclare i materiali più pregiati contenuti nelle batterie allevierà la necessità di attingere alle riserve di materie prime, è altrettanto evidente che nella fase di transizione non si può contare sul supporto della filiera del riciclo, sia per incapacità della filiera di soddisfare la domanda in crescita sia per i limiti tecnologici attuali della filiera medesima.

Una alternativa allo stoccaggio in batteria è la realizzazione di impianti cosiddetti Power-To-Gas (P2G) [22]. Un esempio di impianto P2G è quello in cui l’energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile trova una conversione in forma chimica attraverso la elettrolisi dell’acqua in idrogeno e ossigeno, con la produzione di quello che viene definito come “idrogeno verde”. L’idrogeno può costituire un interessante vettore energetico. Esso è in grado di favorire il passaggio di energia da un ambito di produzione ad un altro, ad esempio attraverso la conversione di picchi di produzione da fonte elettrica rinnovabile in idrogeno, che può essere utilizzato in un secondo momento come combustibile alternativo nel settore trasporti, nel settore termico, oppure essere riconvertito in energia elettrica mediante apparecchi molto costosi come le celle a combustibile. Dal punto di vista concettuale, l’ipotesi del ricorso all’idrogeno come elemento di stoccaggio di energia è affascinante, ma, anche in questo caso, occorre fare i conti con la realtà. Una capacità di stoccaggio di 100 TWh corrisponde a poco meno di 3 milioni di tonnellate di idrogeno. Volendo immaginare di produrre e stoccare questo idrogeno ad una pressione di 300 bar, si renderebbe necessario un volume disponibile pari a più di 111 milioni di metri cubi: per dare una idea del volume necessario, se dovessimo confinare l’intera quantità di idrogeno in un unico serbatoio di diametro pari a 10 metri, questo risulterebbe avere una lunghezza pari a poco più di 1400 km. Ed al problema dello stoccaggio, anche in questo caso, si aggiunge il tema delle materie prime, poiché la realizzazione degli elettrolizzatori presuppone l’utilizzo di alcuni materiali rari quali platino, iridio e titanio [23].

5. Discussione e sviluppi futuri

Per sua natura, una qualunque strategia, una volta stabilito il proprio obiettivo, dovrebbe identificare attraverso un processo di selezione giustificato e ragionato con quali mezzi raggiungere l’obiettivo prefissato avendo come elemento di riferimento la sostenibilità della strategia e del relativo piano. Nel caso del PTE, si è scelto a priori di percorrere la strada delle fonti rinnovabili per raggiungere l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2, non valutando attentamente se a questa scelta si accompagnasse anche la sostenibilità della pianificazione proposta. Alla luce delle caratteristiche tecniche sopra richiamate (densità energetica, dipendenza da materiali critici), e prendendo in considerazione gli equilibri geo-politici in rapido mutamento, occorre ripensare le traiettorie previste al fine di raggiungere con ulteriori mezzi, differenti e sostenibili, i medesimi obiettivi. Alcuni esempi che seguono si basano su un’idea fondamentale: ogni azione, piccola o grande, volta a limitare l’uso delle fonti fossili va perseguita.

1. Il PTE esclude ogni riferimento all’utilizzo del nucleare, se non per quanto concerne il supporto allo sviluppo delle tecnologie per arrivare alla fusione nucleare. Gli impianti nucleari tradizionali consentono la produzione di energia elettrica in continuo, ad un costo competitivo (se riferito ai soli costi di esercizio), con limitato consumo di suolo e senza particolari collegamenti con materiali rari o critici [24]. La decisione di escludere il nucleare dal panorama energetico italiano dovrebbe essere rivalutata, dato che i tempi per la realizzazione di nuovi impianti sono comunque compatibili e similari con quelli richiesti per una transizione realistica verso una quota di rinnovabili crescente.

2. Pur prevedendo il PTE una consistente riduzione dei consumi (- 43% atteso al 2030), quello che manca è una chiara strategia, che si può ottenere solo attraverso una vera politica di risparmio, anche attraverso il condizionamento di alcune abitudini e comportamenti, ad esempio legate al tema dei trasporti, e attraverso l’efficientamento dell’uso dell’energia, così come attraverso l’adozione di nuove politiche di pianificazione urbanistica finalizzate al recupero e alla valorizzazione di tutta quell’energia termica che dovesse risultare non utilizzata o, in conseguenza delle necessità del processo, dispersa nell’ambiente.

3. Occorre incentivare e finanziare tutte le iniziative possibili promosse a livello locale (regionale, provinciale, comunale) che favoriscano l’integrazione o la sostituzione degli impianti esistenti alimentati a combustibile fossile con impianti alimentati da fonti rinnovabili o caratterizzati da maggiore efficienza. Ad esempio, dovrebbero essere largamente incentivate solo quelle forme di produzione di energia rinnovabile i) che abbiano alto potenziale di integrazione con le infrastrutture esistenti, in quanto, oltre a produrre energia svolgono altra funzione accessoria, sostituendo quindi elementi architettonici e/o funzionali, e ii) che presentino un limitato impatto dal punto di vista paesaggistico. Un esempio classico è il fotovoltaico integrato, o integrated photovoltaic, in cui, cioè, il pannello fotovoltaico sostituisce un elemento architettonico come le tegole, i rivestimenti esterni a parete o le superfici vetrate, oppure si integri in una attività come la coltivazione in serra o all’aperto (in questo caso si parla di “agrovoltaico”) [25]. Una spinta verso l’impiego di sistemi fotovoltaici a maggior contenuto tecnologico potrebbe favorire la nascita di una rinnovata filiera nazionale, in grado di proporsi anche all’estero su un mercato per ora di nicchia, ma destinato a crescere nei prossimi anni. Un altro esempio di utilizzo virtuoso e sostenibile della risorsa rinnovabile è quello delle pompe di calore geotermiche [26], possibilmente reversibili (ovvero in grado di funzionare come normali gruppi frigoriferi in estate, e come pompe di calore in inverno). Questo tipo di applicazione, sicuramente più costosa delle tradizionali pompe di calore acqua-aria, garantisce però efficienze maggiori (e quindi risparmio di energia elettrica), e inoltre riduce drasticamente l’effetto negativo prodotto in estate, noto come “isola di calore urbana” (o urban heat island) [27]. Infatti, mentre i gruppi frigoriferi con condensatore ad aria cedono il calore sottratto agli ambienti da condizionare all’aria esterna – generando l’effetto isola di calore – gli impianti geotermici trasferiscono questo calore al suolo per poi estrarlo nuovamente nella stagione invernale successiva. Va ricordato che la temperatura delle fonti geotermiche non deve modificarsi come conseguenza dell’uso di pompe di calore o altra tipologia di impianto, altrimenti la fonte non potrà più essere identificata come rinnovabile: anche in questo caso, occorre essere prudenti ed accorti nella progettazione degli impianti.

Bibliografia

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