Il curricolo di matematica nella scuola italiana: radici, intrecci, ramificazioni
Giorgio Bolondi
Libera Università di Bolzano
Contributo presentato da Pierluigi Contucci
Abstract
In this article we discuss the various cultural, social, epistemological and didactic drives that have influenced the evolution of mathematics curricula in Italian schools. Particular attention will be paid to the influence of Hans Freudenthal’s ideas, in opposition to the formalist tendency prevailing after World War II, and to the impact of the frameworks of the major international surveys, in particular the OECD-Pisa framework.
Keywords
Curriculum design, History of mathematics education, Curriculum reform, Bourbakism in education, Realistic mathematics education.
© Giorgio Bolondi, 2024 / Doi: 10.30682/annalesps2402c
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Da dove viene la matematica che si insegna nella scuola italiana? Quando si pensa ai curricoli, ai programmi, il primo pensiero dei non addetti ai lavori va al what, al cosa, ai contenuti dell’insegnamento, alle “cose” (concetti, procedure, proprietà e risultati…) che sono rimaste nella memoria individuale e che si pensa che gli allievi dovrebbero acquisire nel loro faticoso percorso di apprendimento. In seconda battuta, si pensa all’how, al come ci ricordiamo che ci sono stati insegnati questi contenuti, e quindi alle modalità per far comprendere, per motivare, per individuare le eccellenze e a quelle per superare le difficoltà dei più. Ci si concentra sull’ingegneria didattica, sulle dinamiche cognitive degli allievi, sulle dinamiche relazionali della classe e via dicendo.
In realtà, la questione cruciale che sta dietro alla formazione di un curricolo è il why, il perché. Perché i nostri ragazzi devono imparare a utilizzare le formule di prostaferesi, a risolvere disequazioni biquadratiche, a determinare il segno di un trinomio di secondo grado, e così via (stiamo pescando a caso dall’indice analitico di uno dei manuali più diffusi in Italia)? Ovviamente, la maggior parte delle volte la risposta che l’insegnante dà a questi “perché” è: “studia queste cose perché ti serviranno per capire altri argomenti di matematica”. La matematica è una disciplina in cui le relazioni logiche e funzionali tra i singoli temi e argomenti sono cruciali. L’esistenza di queste relazioni è intrinsecamente determinata dalla natura stessa del sapere in gioco. Però, prima o poi questa catena di rimandi interni deve avere termine. Deve esserci una riflessione condivisa su un “perché” più generale. Per usare la metafora dell’arte della guerra, è solo la risposta al “perché” che permetterà di individuare gli obiettivi dell’insegnamento della matematica. Una volta individuati gli obiettivi si potrà passare alla scelta della strategia, cioè il curricolo, il percorso, il “cosa” che segnerà le tappe del percorso verso l’obiettivo. E naturalmente tutto questo dovrà essere coerente con la tattica, sul “come” queste battaglie andranno combattute. Obiettivi, contenuti, metodologie devono essere organizzati con coerenza e gerarchia.
La considerazione fondamentale, quindi è che un curricolo, un “programma”, un POF, un insieme di indicazioni per un percorso scolastico, non è mai un oggetto neutro. Questo è evidente, se consideriamo la scelta degli argomenti e il modo in cui vengono presentati in un curricolo di storia, di filosofia, o anche di letteratura. Quale storia raccontare, come raccontarla, non sono scelte neutre. Hanno alle spalle delle scelte ideologiche, filosofiche, anche politiche. Ovviamente questo vale anche per la filosofia o per l’educazione civica. Per quanto riguarda la lingua, basta pensare alla forza delle idee sull’educazione linguistica democratica di Tullio De Mauro (cfr. De Mauro 2018). I presupposti ideologici, epistemologici, finanche politici, sia degli estensori dei curricoli sia degli insegnanti che dovranno implementarli sono fondamentali. Una misconcezione molto diffusa, invece, è che sui curricoli di matematica non ci sia molto da discutere. Per esempio, che cos’altro si può fare, coi bambini piccoli, se non “insegnare a far di conto”? E che cosa vuol dire questo, se non apprendere gli algoritmi scritti delle operazioni? In fin dei conti, cosa c’era che non funzionava, nella scuola di Pinocchio?
“Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro imparerò a fare i numeri”, dice Pinocchio discorrendo da sé solo…
In realtà, neppure un curricolo di matematica è neutro. Per la matematica, esattamente come per le altre discipline, un curricolo ha a monte una idea di scuola, una idea di bambino o di ragazzo, una idea di famiglia, di società, di cittadinanza: tutte variabili che influenzano le scelte compiute dagli estensori dei curricoli, che siano essi esperti, insegnanti, politici o tecnici di vario tipo. Ovviamente, è anche sempre presente una particolare idea di matematica (Bolondi 2003).
Anche la storia dei curricoli di matematica nella scuola italiana ha avuto alle spalle queste discussioni, ha avuto i suoi momenti di scelta. Non sempre lo vediamo con chiarezza, perché la potentissima riforma Gentile ha in qualche modo cristallizzato per lungo tempo la situazione.
La domanda sul “perché” prima ancora che sul “cosa” o sul “come” è comunque molto antica, alle origini stesse del pensiero occidentale. Platone, che pure aveva le idee molto chiare sul “come”, visto che gli esempi più folgoranti della sua maieutica sono esempi di matematica, distingueva tra la matematica che va insegnata a chi si dedicherà al commercio, dalla matematica che andrebbe insegnata ai futuri governanti. Matematiche con funzioni diverse, e quindi diverse. Matematica che “serve”, ma “serve” in modi diversi. Non a caso, la domanda che in qualche modo ritorna spesso sulle labbra degli studenti universitari (quelli che non fanno studi scientifici o tecnici), quando si chiede loro se ricordano le disequazioni biquadratiche, le formule di prostaferesi, i trinomi di secondo grado (per restare agli esempi precedenti), argomenti su cui hanno sicuramente sudato per superare le verifiche, è “perché mi hanno fatto studiare queste cose, visto che non ricordo assolutamente nulla?”.
Anche in chi insegna spesso resta un dubbio di fondo sul perché insistere sull’insegnamento di determinati argomenti. In genere, anche qui la risposta è un rimandare il problema: ti insegno questo perché viene chiesto dagli insegnanti degli ordini successivi, medie, superiori, università… Una indagine internazionale (OECD-PIIAC) ha mostrato come in quasi tutto il mondo, ma in Italia in modo particolarmente rilevante, chi non ha bisogno della matematica per motivi professionali, di fatto, utilizza solo la matematica della scuola primaria o poco più. Chi di noi ha dovuto, recentemente, eseguire una divisione con divisore di due cifre con carta e penna, o risolvere in sistema di disequazioni, o determinare le soluzioni di una equazione logaritmica?
Definire cosa significa che la matematica “serve” è quindi un passaggio cruciale in ogni lavoro sul curricolo. Possiamo, provocatoriamente, vedere questo anche in termini brutalmente economici: per insegnare la matematica a ogni singolo studente che arriva a concludere gli studi secondari sono stati investiti, in Italia, almeno 15.000 euro. Sono state “erogate” oltre 1.500 ore di insegnamento in classe, erogate da professionisti qualificati. Cosa resta in mano (in testa) a uno studente, di tutto questo?
Partiamo allora dalla scuola primaria, dalle scelte fatte in Italia e nel resto del mondo. È vero che, in termini di contenuti, almeno sulla scuola primaria c’è una discreta sovrapposizione tra i curricoli della maggior parte dei paesi del mondo. Discreta, ma non completa: le valutazioni internazionali (ad esempio l’IEA-TIMSS; cfr. IEA 2009) cercano di individuare uno zoccolo comune ai curricoli dei paesi coinvolti, e spesso questo zoccolo comune è molto ridotto. Non solo, i risultati misurati su questo zoccolo comune spesso mostrano che lo stesso argomento viene appreso in misura molto diversa, da paese a paese. Nella stessa indagine possiamo trovare domande a cui i bambini italiani rispondono molto meglio della media dei loro coetanei (tipicamente, le domande che richiedono abilità di calcolo), e domande a cui rispondono molto peggio (tipicamente, le domande in cui devono esporre i loro ragionamenti). Ci sono interi ambiti, ad esempio la matematica dell’incertezza, che in Italia hanno fatto il loro ingresso nei curricoli solo in tempi relativamente recenti, e di fatto spesso solo con una presenza nominale, senza entrare davvero dei curricoli implementati effettivamente sul campo.
La scuola elementare italiana, nella prima metà del secolo scorso, come quasi tutte le scuole del mondo prevedeva una matematica essenzialmente procedurale, centrata sull’apprendimento delle procedure. Le cose sono poi evolute un po’ dappertutto, ma in Italia più lentamente. L’idea di bambino è cambiata progressivamente, ma questo solo recentemente ha portato a cambiare il curricolo. Un tempo (all’epoca delle sorelle Agazzi, negli anni Cinquanta) si parlava di fanciullo artista; oggi si parla di bambino futuro cittadino. Pensare alla matematica del fanciullo artista è ben diverso dal pensare a quella del bambino futuro cittadino. Forse tutte e due sono immagini fortemente evocative, forse tutte e due sono esercizi di retorica; comunque sono cose diverse. Andare nella direzione del futuro cittadino significa, ad esempio, introdurre fin dalla scuola primaria quegli elementi di matematica dell’incertezza di cui parlavamo, elementi che non trovavano spazio nell’immagine del fanciullo artista. Tra le “scelte” sociali con le quali un curricolo di matematica si confronta, possiamo vedere la dialettica tra una matematica uguale per tutti (no one left behind) o una matematica grazie a cui le potenzialità del singolo vengono esaltate e le diversità utilizzate per costituire classi differenziate. Abbiamo sistemi scolastici in paesi a noi confinanti in cui le classi di matematica differenziate sul livello degli studenti partono già dalla scuola media. La scuola italiana ha fatto negli ultimi decenni una scelta di inclusività, e questo porta a definire in maniera diversa il curricolo di matematica. Ogni curricolo deve posizionarsi in qualche modo rispetto a diverse scale di valori.
Il tema della matematica per il cittadino è stato forse uno dei più importanti nel dibattito sul rinnovamento dei curricoli in Italia. Il tema esce con forza all’inizio del XXI secolo, con una serie di progetti di grande respiro portati avanti dall’Unione Matematica Italiana, progetti che hanno coinvolto centinaia di insegnanti, ricercatori, dirigenti, tecnici del Ministero. Negli stessi anni, l’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development) lanciava il grande programma PISA (Programme for International Student Assessment), programma che ha avuto un impatto difficilmente sottostimabile in tutto il mondo – in Italia è stato inserito, caso unico, nelle fonti dei curricoli citate nei dispositivi di legge. Anche l’OECD, nel diversi framework che si sono succeduti per inquadrare e realizzare le indagini PISA, ha sviluppato una idea di matematica come competenza di cittadinanza che si è imposta come paradigma dominante in tutto il mondo (Beccuti, Robutti 2022) e che alla fine ha influenzato profondamente, se non altro come punto di riferimento e di confronto, anche la scrittura delle più recenti Indicazioni Nazionali. Comunque, in ogni caso l’idea di cittadino che si poteva avere nell’Italia del 1924 è molto diversa da quella che abbiamo nell’Italia del 2024.
Anche l’idea di matematica è cambiata nel corso del XX secolo, e i relativi paradigmi hanno influenzato l’evoluzione dei curricoli. Diverse prospettive epistemologiche si sono contese il predominio (Ernest 1994). Queste discussioni e questi confronti tra prospettive hanno avuto anche ricadute dirette sull’insegnamento della matematica, a partire dalla scuola primaria. La lunga stagione dell’insiemistica e il suo successivo lento riflusso non è altro che un fenomeno conseguente all’affermarsi e al declinare di precisi paradigmi diffusi tra i matematici militanti: intendiamo parlare dell’affermarsi del bourbakismo e la reazione che ne è seguita (Bolondi 2007). La discussione sull’insegnamento della matematica moderna contrapposto all’insegnamento moderno della matematica (per citare un famoso titolo di Hans Freudenthal) ha visto confrontarsi, anche molto aspramente, alcuni dei più grandi matematici del secolo: Hans Freudenthal per l’appunto, René Thom, Vladimir Arnold, e sull’altro fronte Jean Dieudonné e André Lichnerowicz (OECD 1961; Freudenthal 1963, 1970; Stewart 1975; Thom 1970; De Bock 2023). Un vivace resoconto del clima di quegli anni è contenuto in Furinghetti (2007). Per essere ancora più precisi, l’introduzione dell’insiemistica (il termine, peraltro, è una specificità del contesto italiano), è stata dovuta al convergere di due grandi correnti scientifico-culturali, il bourbakismo e l’influenza del pensiero di Jean Piaget, nel momento in cui il lancio dello Sputnik aveva scosso le certezze di superiorità scientifica e tecnologica dell’Occidente.
Il caso della matematica dell’incertezza che abbiamo già citato merita una riflessione specifica, perché ci aiuta a comprendere la dinamica che rende così difficile il cambiamento effettivo dei curricoli realmente implementati sul campo.
Elementi di probabilità sono in qualche modo presenti esplicitamente nei “programmi ministeriali” fin dalla fine degli anni Settanta, ma di fatto la loro presenza nei curricoli reali è marginale, quando non insignificante. La maggior parte degli insegnanti vi dedica pochissimo tempo; la presenza di questi contenuti nelle verifiche è del tutto irrisoria; le pagine dei manuali sull’argomento rimangono quasi intonse, mentre quelle dedicate all’algebra vengono consumate. Di fatto, le Prove Invalsi hanno rilevato che a dopo oltre quarant’anni le conoscenze e le abilità degli allievi, in questo ambito, sono quasi inesistenti. Certo, manca la formazione degli insegnanti; certamente i materiali didattici sono molto carenti, ma queste considerazioni generali non bastano a spiegare la difficoltà degli insegnanti nel modificare i propri percorsi di insegnamento. Diversi comportamenti comuni sembrano indicare che molti insegnanti non ritengono importanti questi argomenti; per meglio dire, non li ritengono importanti come quelli tradizionali, come ad esempio l’aritmetica o la geometria.
Per ogni insegnante è molto difficile cambiare la gerarchia di importanza tra i diversi argomenti della matematica; l’insegnamento è molto viscoso. Molti insegnanti condividono il bisogno di introdurre nuovi argomenti o nuovi problemi, ma ritengono quasi impossibile rinunciare a contenuti tradizionalmente inseriti nei percorsi. Questo spiega perché nei percorsi reali troviamo di nuclei oggettivamente sovradimensionati, come ad esempio le tecniche e le proprietà delle proporzioni nella scuola secondaria di primo grado, anche se nei curricoli ufficiali viene espressamente indicato di non dare troppo spazio ad essi (MPI 1979). Ciò che ha fatto parte della nostra formazione, il percorso attraverso cui siamo arrivati a comprendere e apprendere cose sempre più complesse, quello che ha costituito il nostro essere insegnanti e in particolare insegnanti di matematica, fa parte di noi. Pensare di cambiarlo è molto difficile. In forma diversa, anche molti genitori o nonni potrebbero sentire come una lacuna intollerabile il fatto che la maestra del figlio o del nipotino insegnasse qualcosa di nuovo, al posto della divisione in colonna.
Il quadro di riferimento di ogni insegnante comprende anche una gerarchia tra le diverse componenti dell’apprendimento della matematica (Fandiño Pinilla 2008): la matematica nella nostra scuola ha un forte imprinting procedurale, lo abbiamo detto. Ogni insegnante ha una propria idea su quanto siano importanti le procedure (algoritmi, costruzioni geometriche, tecniche di calcolo, ecc.) nella costruzione dell’apprendimento, su quanto sia importante insistere sull’argomentazione, sul ruolo degli strumenti…: tutti questi elementi entrano nel definire la filosofia implicita che sta dietro all’azione di un insegnante. Ci sono quindi le scelte (esplicite o implicite) che stanno dietro ai curricoli intended, quelli dei programmi, delle Indicazioni Nazionali, delle programmazioni delle scuole, e ci sono le scelte (in prevalenza implicite) che stanno dietro a come ogni insegnante realizza il proprio curriculum implemented, il percorso che effettivamente realizza sul campo.
Tornando a livello di sistema, ci sono anche scelte che dipendono dall’architettura del sistema, in particolare dall’obbligatorietà. Un tassello fondamentale del pensiero matematico è il pensiero proporzionale, e la conseguente capacità di impostare, affrontare e risolvere situazioni di proporzionalità. Fin dall’inizio della scolarizzazione il bambino affronta situazioni in cui c’è una relazione di proporzionalità tra le variabili in gioco (tra le mele che Pierino compra al mercato e i soldi che spende, ad esempio…). Saperle interpretare e “risolvere” è sempre stata una abilità fondamentale. Quando la scuola obbligatoria terminava con la quinta elementare, un problema tipico dell’esame di licenza era costituito da un problema del tre semplice o del tre composto, vale a dire un problema in cui si conoscono tre termini di una situazione di proporzionalità e bisogna trovare il quarto. La procedura risolutiva è già presente nei trattati degli abacisti del medioevo, e già con questi nomi, che quindi hanno caratterizzato l’istruzione matematica sulla proporzionalità per secoli. Nel momento in cui l’obbligo scolastico si è spostato al termine della scuola media, tutte queste tecniche sono state superate (e per certi versi dimenticate), comunque non più insegnate, e hanno preso grande importanza le “proporzioni” e le tecniche per la loro risoluzione (permutare, invertire, comporre, scomporre…). Al giorno d’oggi, in cui tutti gli allievi imparano o dovrebbero imparare a risolvere le equazioni di primo e di secondo grado, il tecnicismo di risoluzione delle proporzioni ha perso importanza. Resta l’importanza di saper impostare una proporzione per modellizzare una situazione di proporzionalità, e resta cruciale la proprietà fondamentale che permette di ricondurre la soluzione di una proporzione alla soluzione di una equazione. Si potrebbe quindi diminuire il peso nei curricoli delle proprietà delle proporzioni e il tempo dedicato agli esercizi di (cieca) manipolazione delle stesse. È stato fatto nel curricolo intended, si fatica molto a farlo nel curricolo implemented, sempre a causa della viscosità di cui parlavamo poco fa.
Ci sono scelte legate a discussioni più direttamente legate ad aspetti cognitivi. Il passaggio da una matematica “concreta”, legata a situazioni concrete, a una più astratta, è inevitabilmente condizionato dalle tempistiche dello sviluppo cognitivo degli allievi. In particolare, il passaggio da una geometria “intuitiva” ad una geometria “alla Euclide”, o il passaggio dall’aritmetica all’algebra richiedono una capacità di astrazione e di utilizzo di linguaggio simbolico che si acquisisce solo ad una certa età. Ma per altri temi la discussione può avere esiti diversi. Classico, per l’Italia, è stato il dibattito sul rapporto tra l’insegnamento della geometria del piano e quello della geometria dello spazio: conviene insegnare prima il piano e poi lo spazio, seguendo un ordine logico e le orme del grande maestro Euclide, o prima lo spazio e poi il piano, coerentemente con l’esperienza sensibile del bambino? O insegnarle in parallelo, come argomentavano a inizio del Novecento in Italia i sostenitori del fusionismo (Borgato 2016)? Di fatto, la scuola italiana ha scelto, in maniera prima ondivaga e poi più decisamente a partire dagli anni Venti, di privilegiare in tutti gli ordini di scuola l’insegnamento della geometria piana, relegando la geometria dello spazio a un ruolo marginale, al punto che non viene quasi più trattata.
Per ritornare alla matematica che serve, forse l’esempio più evidente di “come cambia quello che serve” sono le percentuali. Dal punto di vista della matematica non è un argomento in sé importante, non è altro che l’applicazione di cose già fatte, perlopiù elementari (divisioni, proporzioni). Ma se apriamo un giornale, è molto difficile che vi troviamo un trapezio, o una divisione col divisore a due cifre, o una disequazione. Sicuramente però troviamo grafici con percentuali, informazioni raccontate (correttamente o meno) per mezzo di percentuali… Se non sappiamo leggerle e interpretarle molto velocemente, magari senza neppure fare calcoli esatti, molto probabilmente stiamo perdendo pezzi importanti dell’informazione. In altri termini, le percentuali fino a qualche decennio fa erano una semplice applicazione di fatti e procedure matematiche elementari, ora sono un pezzo importante delle abilità matematiche richieste, appunto a un cittadino che vuole essere informato.
Il momento di svolta, per i curricoli di matematica in Italia, il momento in cui anche per la matematica la solida impostazione dei programmi di Gentile (peraltro opera di un matematico di notevole spessore, Gaetano Scorza) viene messa in discussione, è rappresentato dall’emanazione dei “Nuovi Programmi” per la Scuola Media del 1979 (Ciarrapico, Berni 2017). In essi si abbandona la tradizionale scansione sequenziale dei contenuti a favore di un’articolazione per temi; si introducono nuovi temi (appunto “la matematica del certo e del probabile”); si sottolinea il ruolo dell’attività dei ragazzi e della classe; si parla esplicitamente di “matematizzazione come interpretazione matematica della realtà nei suoi vari aspetti”. Programmi culturalmente molto avanzati, probabilmente troppo per i tempi in cui furono scritti. Recepivano comunque i primi frutti del rinnovato interesse per l’insegnamento della matematica, cresciuto in Italia nel dopoguerra a partire dall’azione di Emma Castelnuovo (1963) e che si stava coagulando attorno ai nuclei di ricerca didattica, legati al nome di Giovanni Prodi. Un fattore importante, che entra in gioco proprio in quegli anni, è il costituirsi della didattica della matematica come disciplina a sé, con un proprio statuto epistemologico (D’Amore 2023). Questo ha progressivamente portato a basare la discussione sui curricoli di matematica su elementi più solidi, non solo considerazioni empiriche o generalmente filosofiche, su risultati validati da ricerche scientifiche. Dopo poco, vengono emanati i programmi del 1985 per la scuola elementare, che estendono alla prima istruzione gli stessi principi:
Essa [l’educazione matematica] tende a sviluppare, in modo specifico, concetti, metodi e atteggiamenti utili a produrre le capacità di ordinare, quantificare e misurare fatti e fenomeni della realtà e a formare le abilità necessarie per interpretarla criticamente e per intervenire consapevolmente su di essa (MPI 1985).
Il pensatore che forse ha più influenzato questa evoluzione è stato Hans Freudenthal, uno dei fondatori della topologia algebrica, che ha mostrato come non sia possibile scindere, nell’insegnamento della matematica, il suo valore strumentale dal suo valore formativo e culturale, dando una risposta unitaria al perché e aprendo la strada anche a riflessioni sul cosa e sul come. Gli attuali curricoli della scuola italiana, a partire dal primo decennio di questo secolo fanno propri i principi della realistic mathematics education anche per l’istruzione secondaria (Freudenthal 1963, 1969, 1970, 1973).
Sull’onda del bourbakismo, veniva portata avanti l’idea che convenisse insegnare matematica astratta e poi eventualmente mostrarne le applicazioni. Freudenthal ribatteva che si stava sbagliando l’ordine. La formalizzazione, la sistemazione teorica, sono il punto d’arrivo del lavoro del matematico, non il punto di partenza del lavoro dell’insegnante. Non si tratta di insegnare la matematica utile, o di applicare la matematica. Il punto fondamentale è che la matematica è un’attività umana. Far fare matematica agli allievi, dal punto di vista educativo, è molto più importante che trasmettere e ricevere contenuti matematici (Freudenthal 1969).
Ne seguono anche principi didattici che oggi sono largamente condivisi: l’attività matematica dei discenti deve partire da contesti reali, ricchi e significativi (nel senso di portatori di significato matematico); le situazioni di apprendimento sono molto più importanti dell’ingegneria didattica delle lezioni; la comunicazione tra gli allievi e tra allievi e docente svolge un ruolo decisivo. Una frase di Freudenthal spesso citata è: si può imparare [e scoprire] molto di più da una sola situazione paradigmatica che da centinaia di casi irrilevanti. Credo che anche l’esperienza di ricerca matematica di molti matematici professionisti confermi questa affermazione.
Un’attività in classe attraverso la quale si costruisce il significato e si comprende il funzionamento di un oggetto matematico vale molto di più di centinaia esercizi ripetitivi trovati sul libro di testo e svolti più o meno malamente a casa. In termini di curricolo, questo porterà a concentrarsi sui nuclei fondanti, concettuali e procedurali, ridimensionando il ruolo dei tecnicismi finalizzati alla soluzione di casistiche e casuistiche.
A conclusione, per sottolineare come tutto questo riporti anche al significato culturale della matematica, possiamo osservare come queste situazioni significative siano spesso ritrovabili anche nei problemi che storicamente hanno originato lo sviluppo e creato le condizioni per l’evoluzione delle idee matematiche. Come scrive uno dei più importanti matematici della seconda metà del Novecento, Dave Mumford, un geometra algebrico e Field Medalist (quindi un “matematico puro”, come si diceva un tempo),
“It is s through real-life applications that mathematics emerged in the past, has flourished for centuries and connects to our culture now” (Garfunkel, Mumford 2011).
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