Il tempo geologico, il Diluvio, Leonardo, Stenone

Gian Battista Vai

Dip BiGeA, Museo Geologico Giovanni Capellini, SMA
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; Accademico Emerito

 

Abstract

The concept of deep geologic time is a two-century-old assessment first documented by the recognition of the evolution of organic life on Earth (fossils), and later backed up by the numerical dating provided through the radiometric decay of unstable chemical elements, and the astronomical forcing in depositional processes and related sedimentary rocks. Together with the growth of modern geological principles, the geochronological time scale was established beginning with Leonardo da Vinci (1452-1519) and Niels Steensen (1638-1668).

Keywords

Stratigraphy, Fossil question, Principles, Geological history, Experimental science, Earth’s age.

© Gian Battista Vai, 2025 / Doi: 10.30682/annalesps2503b

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1. Introduzione

Le pagine più affascinanti sui concetti di tempo ed eternità sono state scritte da S. Agostino nelle Confessioni (libro undicesimo, 11. 13., seg.), con l’ovvio perdurante mistero, tanto da non saperne dire un inizio e non conoscerne la fine, in Dio o nell’eternità misteriosa di Lucrezio. Ma per la stragrande maggioranza delle culture l’età della Terra fin verso la fine del 1700 era quella biblica o quella delle teorie cosmogoniche, cioè qualche migliaio di anni. È nota poi la disputa fra il maggior fisico del 1800, Lord Kelvin (artefice dello zero assoluto della scala della temperatura) e i geologi, capeggiati da Charles Lyell. Kelvin, forte della presunzione teorica e deduttiva (poco galileiana) sul non rigore delle Scienze Naturali e della Geologia in evoluzione, tuonava, in modo ultimativo e dogmatico, che la Terra “non poteva essere più antica di 20 milioni di anni”. I geologi, invece, parlavano di alcune centinaia di milioni di anni e avevano tutte le ragioni. Si è dovuto attendere il 1937, con la scoperta del decadimento radioattivo naturale, per fare un salto di un ordine di grandezza, e arrivare a un’età della Terra di 4,6 miliardi di anni, condivisa da geologi e astrofisici.

Nicola Stenone (1638-1686) arriva a Pisa in uno dei primi giorni di primavera del 1666. Lo certifica una breve lettera del Principe Leopoldo di Toscana (1617-1675) a un ignoto destinatario datata 27 aprile 1666. Al foglio 3 della lettera si legge in un italiano un po’ incerto

sono stati di passaggio di quà de quali / le ho scritto credo altre volte, che sono il / Sig Stenone Danese Anatomico gioviene / di età ma insigne nel suo mestiere medico / poi di ogni sorta di erudizione e geometria fatto il che questo li giova al suo mestiere / et il Metodico della Modestia. L’altro / è il Sig I Estelot francese…

È un profilo sintetico, quasi un medaglione, del già famoso scienziato e dell’uomo, a cui oggi ci sarebbe da aggiungere solo ‘e Geologo’ ad “Anatomico”. Aveva 28 anni1.

Subito Stenone “Anatomico” viene messo per competenza alla prova dello studio dello squalo appena catturato e tirato sulla spiaggia di Livorno il 26 ottobre 1666. Ha già dimostrato la sua perizia settoria. Ma quella diventa la sua prima occasione per affrontare il problema cruciale dell’origine dei fossili e diventare egli stesso geologo (Canis carchariae dissectum caput, 1667). La seconda occasione seguirà a breve con le escursioni attraverso i colli, le valli, e le cave della Toscana (e si confermerà in quelli successivi del Bolognese, del Veneto, e delle Alpi). Tutto ciò avverrà nel breve lasso di un triennio.

Dello studio del pescecane di Livorno si cita spesso il passo in cui Stenone ricorda che l’amico Carlo Dati (1619-1676), e collega accademico del Cimento, gli offrì l’uso delle due tavole del manoscritto di Michele Mercati (1541-1593) sul capo, i denti, e le glossopetre di squalo della Metallotheca Vaticana, che sarebbe stata pubblicata postuma da Lancisi nel 1717 [2] (Fig. 1)2.

Pochi ricordano, però, che nella seconda metà del Cinquecento nel museo di Ulisse Aldrovandi (1522-1605) a Bologna erano esposte mandibole di squalo pubblicate nel De Piscibus (Aldrovandi 1618, pp. 381-382), opera postuma certamente presente nella biblioteca dei Granduchi [2]-[8] (Fig. 1). Né Dati né gli altri amici dell’Accademia del Cimento, e di riflesso neanche Stenone, ne erano a conoscenza? Non pare probabile, a meno di ritenere il Canis Carchariae e il De Solido di Stenone come semplici rapporti interni sintetici per il principe. Ecco comunque un tema che andrebbe indagato.

Fig. 1. Mandibola e mascella di Canis Carchariae moderno figurati nel De Piscibus di Aldrovandi 1618 postumo (a) e denti di squalo fossili (Glossopetrae) figurati nelle Tavole Acquarellate di Aldrovandi (b) (da Vai, G.B.; Caldwell W.G.E. [eds.], The Origins of Geology in Italy; The Geological Society of America Special Paper 411; 2006; pp. 43-63, per gentile concessione della Biblioteca Universitaria di Bologna) (sopra). Tavola con capo e denti di pescecane per la Metallotheca Vaticana di M. Mercati, stampata postuma da Lancisi nel 1717 (sotto).

In passato ho già apprezzato la grandezza di Stenone [5], danese di nascita ma italiano e fiorentino di adozione, capace di reinventare i principi della geologia moderna a soli 150 anni dal genio supremo di Leonardo [9]-[17]. L’Italia aveva già ospitato il 2° Congresso Geologico Internazionale (CGI) a Bologna nel 1881. Nell’occasione il presidente Capellini aveva portato a Firenze 200 partecipanti da ogni parte del mondo in visita alla tomba di Stenone, allora nei sotterranei di San Lorenzo, inaugurando una lapide nel chiostro della Basilica in ricordo della visita [18].

Mi ripromisi di non fare di meno nel 2000 quando, visitando la Cappella del nuovo beato, lessi la lapide che ne tesseva le lodi di eccelso anatomista, senza nulla aggiungere sul geologo. Oggi nella Cappella un’altra lapide ricorda ai molti visitatori e fedeli devoti che il Beato Stenone è anche padre della geologia. Preparammo coi colleghi fiorentini (in particolare Curzio Cipriani) la nuova lapide che fu inaugurata dal Cardinal Antonelli nell’agosto 2004 alla presenza di molti dei quasi 8000 geologi convenuti a Firenze da tutto il mondo per il 32° CGI [19].

Da allora ho avuto varie occasioni di approfondire l’opera geologica di Stenone [20]-[23] (dopo aver incrociato i miei passi con alcuni di quelli dell’opera sterminata di Leonardo [9]-[13]). La ricorrenza del 350° del Prodromus di Stenone e del 500° della morte di Leonardo mi ha offerto l’occasione di affrontare altri aspetti geologici della grande opera stenoniana, vista in un’ottica comparata con quelli del genio leonardesco. Sono due, in particolare, che attestano una qualche debolezza di Stenone se confrontato con Leonardo, e cioè il Diluvio e il tempo geologico, pur a fronte di tanta sua forza e razionalità.

2. Stenone vs. Leonardo

Sorprende che a distanza di oltre 150 anni l’uno dall’altro i due abbiano duplicato quasi le medesime scoperte geologiche, a partire dall’osservazione della stessa regione, la Toscana, in un tempo in cui essa era al centro dell’evoluzione culturale e scientifica del mondo occidentale.

Quasi tutte le scoperte geologiche di Stenone sono riassunte nel Prodromus (1669). A lui da tempo vengono attribuiti i primi tre principi della geologia, in ordine di formulazione: Orizzontalità iniziale, Continuità iniziale, e Sovrapposizione degli strati. Ma anche il quarto, Attualismo, lo condivide con il suo banditore più noto [24]. Esso è una sorta di corollario, o formulazione limitativa, di un principio più composito formulato da James Hutton nel 1795 e poi chiamato Uniformismo [25], [26]. La ragione per cui molti si limitano ad attribuirgli solo i primi tre sta nel fatto che Stenone certo ammette che i processi geologici che egli descrive in Toscana siano effetto di forze alterne legate al fuoco e all’acqua; però di fatto egli esemplifica quasi solo quelli dell’acqua, fondando più che altro una Geologia del Sedimentario, che chiama inopinatamente “studi di Fisica e Geografia = Physicaes, Geographiae studia” (p. 5 del testo originale). Questa era anche una buona definizione del suo campo di lavoro quando, purtroppo, la nuova parola Geologia non era ancora uscita dal testamento di Ulisse Aldrovandi (1522-1605) [27]. Stenone è anche e soprattutto colui che nella sua breve epitome usa la parola latina “stratum” per 101 volte a partire dalla pagina 17. E almeno 4 volte la parola “experimenta” o “experientia” nella sola introduzione (prime 9 pagine). Ma in quanto all’uso della parola “sperienza” Leonardo non è certamente da meno.

2.1. Vediamo alcuni aspetti topici del Prodromus

Sorprende la rapidità con cui Stenone metabolizza due conversioni, alla geologia e al Cattolicesimo [21] dall’arrivo in Italia. In due soli anni, dal 1666 al 1668, sarebbe stato in grado di scrivere il suo opus magnus sulla geologia, per limitarsi solo occasionalmente all’epitome felice, peraltro rivoluzionaria, anche se lui si scusa col Principe della “sua lentezza” (p. 3). Questo è un indice evidente di elasticità mentale, che spicca in modo esemplare nell’affermazione secca “non tutti i monti attuali sono esistiti dall’inizio dell’universo” (p. 33) con una non velata critica a un altro grande pensatore religioso come Kircher [28], purché non ci fosse un’esplicita preclusione scritturale. Ma è anche indice di intuizione fulminea della geologia toscana “dopo aver visto una e due volte le terre” (p. 2).

È molto importante non sorvolare sul riferimento anonimo che Stenone fa a “numerosi contributi ottimamente scritti da molti” sul problema “degli oggetti marini rinvenuti lontano dal mare” (p. 5). È ovvio che li conoscesse, compresi quelli stampati (e non solo) di Aldrovandi che era in scambio epistolare e scientifico col Granduca [8], [21], ma non li citava, o per la brevità dell’epitome, o perché spesso così capitava a quei tempi.

Scopo di Stenone è “dimostrare i punti principali in breve e […] chiaramente” (pp. 6, 7), seguendo quindi il metodo cartesiano: “ho esaminato con scrupolo le sue sezioni [del problema] una a una” (p. 8). Non deve sorprendere, Stenone non criticava il metodo, ma i contenuti e le affermazioni a cui Cartesio perveniva applicando male il suo metodo [21], [29].

Neppure Stenone però è esente da sottili contraddizioni. Infatti, afferma che quello che espone “riguardo la determinazione del moto si adatta a ogni fattore movente” (p. 12), indipendentemente dalla scuola scientifica, filosofica o teologica; ma poco prima ha proposto “che il diluvio universale non è in contraddizione con le leggi dei movimenti naturali” (p. 6). Vero questo solo se non si pretende che faccia ciò che non può fare (trasportare cioè tutti i fossili nelle torbide che daranno vita a tutti gli strati fossiliferi).

Risultato basilare della ricerca stenoniana sulla geologia della Toscana sta nell’individuare sequenze logiche temporali relative che partono dai corpi solidi (conchiglie e minerali) contenuti negli “strati che deposita l’acqua torbida” (p. 17), sequenze che vengono poi esemplificate ripetutamente nei processi sedimentari, minero-petrografici, e nelle incrostazioni (pp. 26, 30, 41, 42). Una ulteriore affermazione del criterio di cronologia relativa è formulata in chiave anti-kircheriana:

I monti possono essere rovesciati, i campi trasportati da un lato all’altro, rispetto a una strada pubblica; le vette dei monti possono essere innalzate e abbassate; le terre possono essere aperte e di nuovo chiuse; e accadono altre cose di tal sorta che, nella lettura della storia, le considerano come leggende coloro che cercano di evitare fama di creduloni (p. 34)3.

Ebbene, questa è prima di tutto una visione mobilista, quasi evolutiva, della storia della Terra – nella sostanza non molto dissimile da quella leonardesca, ma anche di L.B. Alberti e G. Fracastoro [30], ma in termini assai vicini a quelli usati nei Salmi – che si completa nell’ultima parte del Prodromus.

Altro fattore decisivo della ermeneutica stenoniana è l’uso sistematico del criterio di similarità, già applicato nello stesso modo nella tassonomia aldrovandiana, e che per oltre tre secoli dominerà la classificazione biologica e paleontologica, Linneo compreso: “corpi […] simili in tutto a parti di piante e di animali” (p. 17).

La prima formulazione stampata del Principio di Orizzontalità iniziale è sua: “La superficie superiore dei sedimenti è parallela all’orizzonte, o per lo meno poco deviante rispetto a esso” (p. 27). Segue poco dopo quello della Continuità iniziale:

nell’epoca nella quale prendeva forma un qualsiasi strato […] ricoprì l’intero globo terrestre […] in qualsiasi luogo si osservino i fianchi scoperti degli strati […] bisogna ricercare la continuazione degli stessi strati (p. 30) (corsivo mio).

Stabiliti questi due assiomi, Stenone ne deriva la sua concezione orogenetica: “il mutamento di posizione degli strati è [causa dell’] origine dei monti” (p. 32), ma lo sono anche “l’eruzione di fiamme, […] e per l’impeto di piogge e torrenti” (p. 33), in cui paiono mescolarsi intuizioni tettoniche, ignee, e geomorfologiche. In realtà, Stenone motiva il cambiamento della posizione degli strati essenzialmente per collasso o “scivolamento degli strati inferiori” (p. 36), generato da erosione, in un contesto cinematico passivo, per pura gravità. Netta e decisa è l’opposizione alla concezione fissista, peraltro non banale, del Mundus Subterraneus di Kircher (in cui ci sono catene montuose orientate sui meridiani e altre sui paralleli sin dagli inizi del Creato) [8].

Contestualmente, si trovano evidenti, se pur involontarie, formulazioni del Principio dell’Attualismo di Lyell (the present is the key to the past) nei punti 3., 4., 5. (pp. 28, 29):

3. Se in un certo strato noteremo tracce di sale marino, resti di animali marini, tavole di navi e una materia simile al fondo marino, è sicuro che in quel luogo una volta è esistito il mare, in qualsiasi modo sia effettivamente giunto lì, o per proprio straripamento, o per innalzamento di monti (p. 28).

La formulazione più letterale e aderente al futuro modello canonico lyelliano, sempre inconscia direi, si trova più avanti:

In che modo lo stato presente di una certa cosa svela lo stato passato della medesima cosa, oltre al resto lo mostra chiaramente con il proprio esempio la Toscana, nella cui facies odierna le disuguaglianze che si incontrano contengono in sé tracce palesi di diversi cambiamenti (p. 67, corsivi miei).

Non ci si deve sorprendere perché formulazioni ancora più esplicite dell’Attualismo si trovano già per esempio in Aldrovandi e in Colonna [27], [3].

La conversione geologica di Steno non ne modifica il metodo anatomico d’indagine. Egli continua sempre a fare l’anatomia non solo col bisturi sui corpi organici, ma ora con gli occhi anche su quelli geologici, sia in superficie nelle pareti dove appaiono “strati spezzati” (p. 32), che “in moltissime caverne” del sottosuolo (p. 34). Lo stesso vale quando parla della crescita delle conchiglie (p. 57).

Due sono i riferimenti temporali occasionali alla durata del tempo della Terra. Il primo afferma “l’acqua trattenuta in quel modo non evapora neppure in tutti i secoli a venire” (p. 38). Ne deriva che l’ordine di grandezza del futuro della Terra per Stenone sono “i secoli”, neanche i “secula seculorum” della tradizionale dizione biblica per indicare i tempi più lunghi. Il secondo riferimento è più elaborato, ma ha esito analogo:

Vi sono di quelli cui la lunga durata del tempo sembra annientare il vigore degli argomenti restanti, non essendo noto a memoria di nessuna generazione che le inondazioni si siano innalzate fino al punto dove oggi si ritrovano molti corpi marini, se si escluderà il diluvio universale, a partire dai quali fino ai nostri tempi si contano approssimativamente quattromila anni; né pare in buona armonia con la ragione che parte di un corpo animale abbia resistito alle ingiurie di così tanti anni, quando constatiamo spesso che nel tratto di pochi anni quegli stessi corpi si disfano totalmente (pp. 62, 63).

Qui Stenone pecca anche per carenza di osservazioni e eccessiva fiducia nella sua ragione. E, ai nostri fini, confessa candidamente che i suoi “così tanti anni” non alludono al tempo profondo dei geologi ma ancora e sempre ai 4000 anni biblici, anche in accezione scientifica.

Per una mente critica come la sua non ci si aspetterebbe di trovare una certa dose di ingenuità come in: “2. È sicuro che sono esistiti un tempo uomini di grandezza mostruosa” (p. 62) (neppure la Mostrorum historia di Aldrovandi si avventura in simili affermazioni, proprio perché ha intenti solo scientifici [27], [31]); oppure prendere per elefanti di Annibale le grandi ossa scavate nell’Aretino (p. 64), quando paradossalmente invece Stenone arguisce che là si trovano “crani di bestie che non provengono da animali di queste latitudini” (p. 64).

Poco dopo si arriva alla parte più originale e innovativa del Prodromus. “In ordine inverso” (antistratigrafico si noti bene, ma scelto forse per la sua maggior efficacia nei lettori non geologi), e in serrata e lineare successione. È accompagnata da un modello grafico di sorprendente sintesi e modernità, che non ha più nulla di barocco. In esso Stenone descrive, quasi diagnostica, le sei facies della storia geologica della Toscana, già introdotte a p. 6 col termine di “stati”. Poi, come per attutire il lapsus volontario proiettato nel futuro, adotta il criterio d’ordine stratigrafico corretto, secondo quelle che sono poi diventate convenzioni stratigrafiche, cioè l’ordine dal basso (antico) in alto (recente), nella corposa didascalia delle figure dopo p. 76. Qui, infatti, l’elenco comincia dalla facies più bassa e antica. Stenone è forse uno dei primi a impostare l’analisi storica di una regione da un punto di vista geologico, vedendovi una sequenza temporale [32].

Su questo punto dell’introduzione del termine latino facies, cioè faccia o aspetto, Stenone non teme subalternità, involontaria, a Leonardo. “Omo sanza lettere” (fino a un certo punto), Leonardo non vanta pretese linguistiche. Stenone usa il termine facies in una accezione assai più generale di quanto lo usano oggi i geologi. Il suo è un uso pienamente geologico che ingloba anche aspetti tettonici. Noi invece lo usiamo in accezioni prevalentemente stratigrafiche sedimentarie (ma non dimentichiamo le petrofacies e simili). Ci si potrebbe chiedere se Gressly che ha ridato nuovo impulso all’uso del termine facies in stratigrafia nel 1838 conoscesse l’uso che ne aveva fatto Stenone [33].

Il modello evolutivo di Stenone appare schematico, astratto, idealizzato, concepito sulla base di faticose supposizioni, privo dell’ardire di riuscire a rappresentare la realtà [13] ma evidentemente ispirato ai fatti esposti nel paesaggio toscano e ben visti dai suoi occhi.

Fig. 2. Modello evolutivo o schema di stadi successivi di cambiamento nella storia geologica della Toscana (Stenone Prodromus 1669) (in alto; è riportata solo la parte pertinente della tavola originale). Modello geometrico di sequenza stratigrafica ideale, rappresentata in diagramma spazio/spazio (sopra) e spazio/tempo (sotto) (da Vail, P.R. Bulletin AAPG., Memoir 26, 1977, 49-212) (in basso).La figura-modello composita (25-20) non si limita a fare la storia geologica della Toscana trovando nel suo “stato presente” “le tracce palesi” “dello stato passato”, “oltre al resto”. E il resto è costituito dai principi già enunciati a parole, che diventano intuitivi nella nitida e ordinata rappresentazione geometrica [34], altamente speculativa ma didattica (Fig. 2, in alto). Non posso fare a meno di vedere in questo diagramma di Stenone l’icona o prototipo grafico e concettuale dell’intero sistema della Stratigrafia Sequenziale moderna dei petrolieri americani [35], che non mi pare si siano ricordati di citare il modello (Fig. 2, in basso). Una pura convergenza indipendente e casuale sarebbe poco credibile. Questo che oggi è anche il miglior strumento di correlazione cronologica nella geologia dei sedimenti stratificati, ci dice quale sia stato il ruolo di Stenone nel formulare il concetto di tempo geologico, nonostante il suo errore nel valutarne la durata.

Da questo mirabile capitoletto finale del Prodromus deriva una geologia stenoniana [3], [36] decisamente mobilista e intrinsecamente evolutiva, formulata in modo esemplare, quasi come assioma: “è certamente incessante il cambiamento delle cose naturali e non vi è d’altra parte alcuna riduzione al nulla” (p. 71). Vale ricordare che Stenone, educato alla diuturna lettura della Bibbia, ravvisava e rispecchiava una tale visione scientifica della natura anche nel sublime deutero Isaia (es. 43, 16-21). Non ci sono invece indicazioni per vedervi una evoluzione paleontologica, neppure nella distinzione stenoniana fra strati fossiliferi e strati azoici, vedi tavola 1 in [20]. La stessa distinzione di “strati rocciosi” da un lato, e di “strati delle colline arenacee” e dei “colli sabbiosi” dall’altro (p. 45), sia in testo che nella didascalia, ha solo un significato stratigrafico temporale.

Resta il fatto che questa di Stenone è la prima sintetica ricostruzione stampata per stadi evolutivi (“diversi cambiamenti”) della stratigrafia, dei paleoambienti e della paleogeografia di una regione ben delimitata, “spazio compreso fra Arno e Tevere” (p. 76). È indubbio che prevalga l’aspetto geomorfologico e di geologia esogena. Ma anche la geologia endogena viene coinvolta seppur in forma di sola tettonica di collasso e crollo, ispirata da Cartesio.

Nella ricostruzione sono inserite alcune affermazioni, fondate o infondate, meritevoli comunque di sottolineatura. Come quella per cui “gli strati dei monti più alti privi di ogni corpo eterogeneo” “dimostrano chiaramente che nell’epoca […] non si trovavano ancora né animali né piante” (p. 69).

Qui è di particolare importanza la formulazione del Principio di Sovrapposizione, applicato sia a strati singoli che a gruppi di strati:

sono stati deposti nuovi strati da un altro fluido al di sopra degli strati del primo fluido, la materia dei quali ha potuto colmare di nuovo allo stesso modo le rovine degli strati abbandonati dal primo fluido; cosicché appunto bisogna sempre far ricorso al fatto che, nel tempo in cui prendevano forma quegli strati di materia pura ed esposti in tutti i monti, gli altri strati non esistevano ancora, ma tutto era coperto da un fluido privo di piante e di animali e di altri solidi (p. 70).

Tale formulazione viene poi graficamente espressa nell’icona del modello evolutivo di Fig. 2 (in alto). E nella didascalia della tavola vengono espressi ancor più chiaramente due concetti basilari della geologia quali trasgressione e regressione spaziale della linea di costa e verticale del livello del mare: “la Toscana […] è stata due volte fluida, due volte piana e asciutta” (pp. 68, 69).

2.2. Passiamo a sintetizzare ora la geologia di Leonardo (1452-1519)

Se si pensa a lui, qualche relazione fra pittura e geologia sembrerebbe ovvia. Non a caso Leonardo da Vinci a partire dagli inizi dell’Ottocento è ritenuto uno dei padri fondatori della geologia moderna [24], [37]. Che ci sia invece una sorta di relazione genetica fra la riscoperta della prospettiva geometrica, ben espressa soprattutto nella pittura dell’Umanesimo, e la nascita della geologia, sorprenderà forse molti lettori e anche qualche specialista. Eppure, quest’idea è ben fondata e anche non recentissima [38]-[40]. Non unico fra gli artisti del Rinascimento, Leonardo è stato inarrivabile nel fornirci nei suoi fogli manoscritti un precoce trattato illustrato di ciò che noi chiamiamo oggi scienze geologiche [9]-[13]. E lo fa, come dopo di lui Aldrovandi e Stenone, sempre partendo dalla sua sperienza piuttosto “che dall’altrui parola4.

Leonardo nel primo Rinascimento aveva già formulato i principi generali della geologia studiando Toscana, Appennino Romagnolo, Pianura Padana, Alpi Lombarde e Venete, che si sarebbero confermate come aree tipo dello sviluppo della geologia nei secoli successivi5. Egli scrive di strati, della loro orizzontalità originale, continuità originale, sovrapposizione, inclinazione successiva e conseguente inconformità o discordanza angolare. Vediamone qualche documento per cui mi rifarò a quanto scrissi in un volume stampato nel 1986, ma mai distribuito per fallimento della casa editrice. La fonte primaria è il Codice Leicester, scritto intorno al 1506-1510:

e il segnio di ciò si vede dove per antico li monti Appennini versavano li lor fiumi nel mare Adriatico, li quali in gran numero mostrano infrali monti gran somma di nichi insieme coll’azzurrigno terren di mare (9A, 9r)

le radici settantrionali di qualunque alpe non sono ancora petrificate; e questo si vede manifestamente dove i fiumi, che le tagliano, corrano inverso settantrione, le quali taglian nell’altezza de’ monti le falde delle pietre vive; nel congiungiersi colle pianure le predette falde son tutte di terra da fare boccali, come si dimostrano, in Val di Lamona, fare al fiume Lamona nell’uscire del monte Appenino, far lì le predette cose nelle sue rive (10A, 10r)

Li suoli, o ver falde delle pietre, non passano troppo sotto le radici de’ monti, ch’elle son di terra da far vasi, piena di nichi; e ancora queste vanno poco sotto, che si trova la terra comune, come si vede ne’ fiumi che scorron la Marca e la Romagna, usciti delli monti Appennini (1B, 36r)

Leonardo, di nuovo “omo sanza lettere”, non è facile a leggersi. Va trascritto, semplificato e interpretato, ricordando che l’iterazione dei suoi periodi fa parte del suo metodo sperimentale: riformulare cioè il concetto in base alle varianti di ogni caso analogo (le sezioni trasversali naturali degli strati visibili lungo le valli di Marche e Romagna). L’ultimo brano si può trascrivere e spiegare geologicamente come segue (i corsivi sono miei): “Lungo le valli che attraversano le Marche e la Romagna, uscendo dai monti Appennini, si vedono i veri strati litoidi che, non proseguendo troppo sotto [oltre, scendendo la valle e sotto, più in basso di prima] il piede dei monti, sono [sostituiti da altri strati e] fatti di terra da far vasi [argilla malleabile per ceramica], piena di nichi [conchiglie]; e questi proseguono ancora poco sotto [oltre], dove [sono sostituiti da e] si trova terra comune [terreno agrario del fondovalle], come si vede nei fiumi […]”.

Se fondiamo gli ultimi due brani, che sono omologhi, appare chiaro che Leonardo riconosce e distingue tre unità stratigrafiche, noi diremmo formazioni, che ogni geologo incontra scendendo lungo le valli di Romagna: 1) le “falde [strati] delle pietre vive” o “li suoli o ver falde delle pietre” (= Formazioni Marnosa Arenacea e Gessosa Solfifera), 2) “le falde di terra da fare vasi di azzurrigno terren di mare pieno di nichi” (= Formazione Argille Azzurre), 3) “la terra comune” (= alluvioni fluviali pedemontane) (Fig. 3). E in altro foglio dello stesso Codice ribadisce “de’ nichi in fango azzurreggiante” (f. 8B).

Fig. 3. Sezione stratigrafica naturale 3D del tratto centrale della Val Santerno a Borgo Tossignano, Appennino Romagnolo, con sovrapposto lo schizzo desunto dalla descrizione che Leonardo fa nello scendere la parallela e geologicamente equivalente Val Lamone nel Codice Leicester. Legenda: vedi testo per la spiegazione; 1. Formazione Marnoso Arenacea MA, e Formazione Gessoso Solfifera GS, 2. Formazione Argille Azzurre AA, 3. Alluvioni fluviali pedemontane; limiti fra formazioni in giallo; stratificazione in arancio.

Fatto assai importante, Leonardo scendendo le valli ha eseguito mentalmente la scansione 3D degli strati e dei loro tre raggruppamenti sulla base del loro assetto geometrico (direzione e immersione degli strati nello spazio) (Fig. 3). Esprime cioè il concetto che le tre unità sono sovrapposte nello stesso ordine dal basso verso l’alto, e che le prime due compaiono una in successione all’altra lungo i fondivalle per effetto della immersione dei loro strati verso la pianura (o “inverso settantrione”), mentre la terza unità compare per ultima e non si immerge sotto nulla, ma evidentemente ricopre e nasconde le altre due. Le alluvioni allora sono orizzontali, come i depositi dei fiumi, e tagliano in maniera discordante gli strati inclinati, come Leonardo vedeva lungo i fiumi toscani e romagnoli, quando a cavallo andava da Firenze a Imola, Faenza, e Cesenatico. E lo stesso vedono oggi i geologi scendendo lungo le stesse valli.

Leonardo cita espressamente la “Val di Lamona”, in cui, come noi oggi, ha descritto una monoclinale di strati immersi verso la pianura e rivestiti dalle alluvioni nei fondivalle romagnoli e in pianura (Fig. 3).

Questa è una formulazione operativa del Principio di Sovrapposizione Stratigrafica già a livello di gruppi di strati, qui assai più elaborato e concreto rispetto a quello schematico e astratto di Stenone. E il concetto di discordanza angolare fra pacchi di strati traspare già evidente, come lo sarà in alcuni strabilianti sezioni geologiche sottomarine di Luigi F. Marsili (1658-1730), prima della formulazione scritta di James Hutton a fine Settecento.

Chi arricci il naso per presunto eccesso interpretativo, consideri spassionatamente il prossimo brano:

Come li fiumi an tutti segati e divisi li membri della grand’alpe l’un dall’altro; e questo si manifesta per lo ordine delle pietre faldate, che, dalla sommità del monte insino al fiume, si vede la corrispondenza delle essere così l’un de’ lati del fiume, come dall’altro. Come le pietre faldate de’ monti son tutte è gravi de fanghi posati l’un sopra l’altro per le inondazioni de’ fiumi (10A, 10r) (corsivo mio).

in cui sia il Principio di Continuità Laterale degli Strati che quello di Sovrapposizione Stratigrafica sono letteralmente enunciati nella stessa modalità descrittiva e interpretativa di Stenone. Vien quasi il dubbio che Stenone abbia potuto orecchiare almeno alcuni di questi concetti leonardeschi, trasmessi come tradizione verbale dalla cerchia dei suoi amici e collaboratori a Firenze [20], [22] dove peraltro Stenone ha certamente visitato la Galleria degli Uffizi e quindi il Battesimo, di cui si parla subito sotto.

Ciò che sembrerebbe mancare a Leonardo, almeno in questi brani, è di fare l’equazione spazio-temporale esplicita rispetto a Stenone, che cioè gli strati inferiori sono più antichi ([9], p. 44). Prima di proseguire con passi manoscritti, andiamo a ricercare informazioni in qualche quadro e disegno di Leonardo.

Nel Battesimo del Verrocchio e altri artisti della bottega (Fig. 4) il giovanissimo Leonardo compone l’angelo di sinistra e parte dei fondali dal 1470 al 1480 [11]. Qualcuno di recente si è arrischiato ad asserire che i ciottoli del torrente ai piedi dell’angelo non sarebbero di Leonardo perché mal abbozzati. Costui non si è accorto che lo stesso tema è ripetuto in altra opera matura, la S. Anna del Louvre (1506-1510), e che ricorre ripetutamente nei codici di Leonardo, come icona della dinamica ‘acqua e pietre’. Ho già spiegato come non si possano fare attribuzioni solo sulla base della tecnica usata, specialmente per Leonardo che, purtroppo per noi, non disdegnava certo di sperimentare tecniche nuove [11], o nuovi stili. Certe parti dei due quadri suddetti sono dei piccoli trattati grafici sulla formazione dei ciottoli fluviali6, ma anche sulla fluido dinamica delle particelle sabbiose, limose e argillose trasportate dai fiumi entro il mare (cioè il contenuto dei fluidi torbidi generatori degli strati di Stenone).

Fig. 4. Genesi graduale dei ciottoli fluviali nel Battesimo di [Verrocchio], Leonardo (1470-1480), [et al.], Firenze, Uffizi (foto Vai 2001) (sopra), e nella S. Anna di Leonardo (1506-1510), al di sotto degli strati a esili lamine sabbiose, Parigi, Louvre (foto Vai 2000) (sotto).

Molti passi anche nel solo Codice Leicester attestano il livello di comprensione che Leonardo aveva raggiunto su argomenti quali l’alterazione superficiale, il trasporto solido, la sedimentazione e la litificazione. Ne cito solo alcuni [43]:

Ne’ principi de’ fiumi son le gran pietre. Nel quarto del fiume son le ghiaie. Nel mezzo del corso del fiume son le rene. Nell’ultimo del fiume si troverà il fango (18A, 19v).

Il fiume, che esce de’ monti, pone gran quantità di sassi grosi inel suo ghiareto, i quali sono ancora con parte de’ sua angoli e lati [ecco la ragione per cui Leonardo ha rappresentato la formazione dei ciottoli anche in situ prima di farli ulteriormente arrotondare nei fiumi]; e nel processo del corso conduce pietre minori con angoli più consumati, cioè, le gran pietre fa minori. E più oltre pon ghiaia grosa, e po’ minuta; di poi procede lita grossa e poi più sottile; e, così seguendo, giugne al mare l’acqua turba di rena e di lita: la rena scarica sopra de’ liti marini pel ricitramento dell’onde salse, e segue la lita di tanta sottilità, che par di natura d’acqua. La qual non si ferma sopra de’ marin liti, ma ritorna indirieto coll’onda, per la sua levità, perché nata di foglie marce e d’altre cose lievissime, si che, essendo quasi, com’è detto, di natura d’acqua, essa poi, in tempo di bonaccia, si scarica e si ferma sopra del fondo del mare, ove, per la sua sottilità, si condensa e resiste all’onde, che sopra vi passano, per la sua lubricità (6B, 6v).

Di poi che ’l mare si discostò dalli predetti monti, la salsedine lasciata dal mare, con altro omore della terra, ha fatto una collegatione a essa ghiara e rena, che la ghiara in sasso e la rena in tufo s’è convertita (6A, 31v).

Il fiume muta più spesso il letto ne’ lochi piani e di tardo corso che ne’ monti e di veloce corso; e questo accade perché la materia dal fiume nel piano, perché in tal loco li manca l’impeto e si scarica (18A, 19v).

Se non si parte da questi (e altri simili) passi, è difficile individuare chi abbia dipinto i ciottoli del Battesimo e capire la somiglianza ma anche la differenza che ci sono nella geologia dei due dipinti discussi. In essi la teoria leonardesca della nascita e sviluppo dei ciottoli è rappresentata in maniera identica, secondo la falsariga del brano riportato sopra (6B, 6v) [11].

La maturazione avvenuta nella mente di Leonardo si manifesta ancor più in una struttura sedimentaria nel basamento della S. Anna (Fig. 4, sotto) dove ho potuto riconoscere uno strato arenaceo con finissime lamine sabbiose ondulate, tipiche delle rocce più comuni in Toscana e Romagna: le torbiditi. Sono rocce derivate dal deposito in fondo al mare di correnti cariche di materiale torbido portato da grandi piene fluviali7 (di nuovo un concetto ben presente nel Prodromus). Fatto ancor più significativo, le torbiditi, per la moderna geologia, sono state scoperte, descritte e interpretate, ufficialmente, a metà Novecento, ancora in Toscana, da C. Migliorini e P. Kuenen, a dimostrazione di una loro discendenza genetica stenoniana e, prima, leonardesca. Se pensiamo al livello di intuizione, osservazioni e competenza raggiunto da Leonardo sulla meccanica dei fluidi, il moto ondoso, l’origine dei vortici e i processi all’interfaccia sedimento/acqua e acqua/aria, non sorprende che avesse osservato e capito anche il meccanismo deposizionale delle torbiditi [11], [12].

Questo processo si collega a quello rappresentato in un disegno del Codice Arundel [10], dove Leonardo teorizza il meccanismo di formazione delle increspature visibili nelle dune ventose o nei fondali sabbiosi sottoposti al moto ondoso o alla corrente, al contatto aria/acqua/sedimenti granulari, o addirittura nei treni di nuvole del bel tempo al contatto vapore/aria asciutta. È questo meccanismo che ha formato quelle lamine sottilissime filiformi, in sezione, quasi fossero capelli, con le dolci ondulazioni, che si ripetono e si rifrangono le une nelle altre, nello strato marroncino di Fig. 4 (sotto), prima che le lamine di sabbia si litificassero a produrre uno strato.

Gli stessi riccioli, inimitabili, li troviamo nei capelli dell’angelo del Battesimo o in quelli della Ginevra de’ Benci (~1474) (Fig. 5) o nella famosa Mappa di Imola (1502), dove rimandano e si trasformano nei meandri del Fiume Santerno, studiati come tema aggiuntivo ma integrato nel tema della mappa.

Sarà opportuno qui ribadire che uno dei fascini più sottili e misteriosi della pittura di Leonardo è la poetica della scienza [11], [14]. Misterioso perché l’osservatore deve essere preparato scientificamente e tecnicamente per poter leggere e vedere ciò che Leonardo, con anticipo secolare, aveva già capito, dipinto e ‘nascosto’ ai contemporanei, e lasciato in eredità all’intelletto cumulativo dell’umanità in un futuro di durata ancora indefinibile. E il mistero non disdegna la rappresentazione realistica del naturale, che non ha proprio nulla di fotografico in quanto si concretizza solo quando l’artista scienziato ha capito il processo e lo vuole raffigurare nel gran libro pregnante delle sue opere artistiche.

Fig. 5. Vortici elicoidali di un fluido sul lato sottovento di un ostacolo fisso in vista laterale e verticale con flusso da destra a sinistra (Leonardo Codice Leicester 15B 22r) (a sinistra). Particolare dal Ritratto di Ginevra de’ Benci di Leonardo (~1474) con riccioli in spirali 3D (a destra).

3. Il Diluvio

Stenone è in buona compagnia con chi vede nel Diluvio la causa dei fossili nelle montagne, tema ovvio per tanti naturalisti della Riforma luterana [5], [22], [27], [44]. Nondimeno, l’importanza che dà al Diluvio è l’unico aspetto debole della sua opera geologica, nel quadro di un uso inappuntabile, anzi ammirevole che lui fa della ragione e dell’esperienza, libere da influssi esterni. Naturalmente faccio la valutazione applicando i criteri di giudizio, la mentalità, i principi, le conoscenze e le teorie del tempo, e non quelli di oggi.

La questione dei fossili marini che si trovano sui monti può essere schematizzata nelle seguenti fasi [3]:

1) I presocratici, ripresi da Erodoto, pensano che i fossili siano resti pietrificati di animali ex-vivi.

2) Aristotele, Plinio, Lucrezio, Seneca, Isidoro, Beda considerano alcuni fossili come pietre speciali o corpi inorganici utili nella farmacopea.

3) Il dualismo interpretativo (organico o inorganico) si rafforza nel Medioevo (Ristoro d’Arezzo)

4) Leonardo ammette solo l’origine organica, ridicolizzando i presunti rapporti col Diluvio biblico, che peraltro non mette in discussione sul piano storico, anzi utilizza come testimone della contraddizione insanabile di chi lo invoca. Diversamente da Stenone e più che Aldrovandi, Leonardo contesta il ruolo geologico del Diluvio, anticipando e risolvendo un dibattito filosofico scientifico che in Europa si protrarrà per tre secoli. Purtroppo i manoscritti di Leonardo rimasero sconosciuti fino alla fine del Settecento [45]. Ma forse qualcuno ne ebbe sentore, come Girolamo Fracastoro (1485-1553) che si limita a usare argomenti antidiluvianisti quasi identici [12], [20], [22].

4. Il tempo geologico

In geologia bisogna distinguere il tempo dei processi ciclici (come nascita e morte delle catene montuose), da quello dei processi lineari (come l’evoluzione biologica). Per misurare il tempo occorre disporre di una scala relativa ordinale (primo, secondo ecc.) oppure di una scala assoluta cardinale o numerica. Fino a circa due secoli fa anche il tempo geologico si misurava in anni, secoli, millenni e “secoli di secoli”, cioè non oltre circa 10.000 anni, in analogia con il tempo storico. Da fine Seicento/inizi Settecento il tempo geologico si misura in decine e centinaia di migliaia di anni, dall’Ottocento in milioni fino a centinaia di milioni di anni, e dal Novecento in miliardi di anni. Questa è stata forse la maggiore rivoluzione conoscitiva della storia umana, ancora poco digerita. Ne sono stati artefici i geologi, seguiti poi dai fisici, non dopo vistosi errori, come quello clamoroso di Lord Kelvin che voleva porre limiti ai geologi, per essere poi smentito postumo da più giovani colleghi fisici.

In passato Aristotele parlava di eternalismo punteggiato da ciclicità, senza quindi la possibilità di estrarre una storia della Terra. Lucrezio invece postulava un universo eterno esistente “da tempo infinito” e un mondo caduco durato solo “multos per annos”. Agostino, da par suo, prima evidenziava la contraddizione tra tempo e eternità, “Vorrebbero conoscere l’eterno, ma la loro mente volteggia ancora vanamente nel flusso del passato e del futuro” (Confessioni, 11, 11. 13), poi adombrò il concetto di “innumerevoli secoli” riferendosi alla storia della creazione “del cielo e della Terra” (Confessioni, 11, 13. 15).

In realtà, esclusi solitari pensatori, prima della scienza moderna, l’età della Terra era quella misurata dalle cronologie biblica e delle altre grandi civiltà, come quella cinese, cioè non più di alcune migliaia di anni. Come battuta, si può dire che anche il tempo infinito degli eternalisti non è mai stato altro che indefinito, ma certamente lungo.

Neanche Hutton misurava numericamente il tempo della Terra, ma lo riteneva almeno più lungo di quanto lo avesse stimato Buffon (75.000 anni) che citava; e i suoi interpreti (Lyell in primis) assegnavano alla Terra un’età di centinaia di milioni di anni.

Chi ha ispirato Buffon a fare quel primo gran salto? Ben prima di Réaumur [44] furono il modenese Grandi e il veronese Bianchini [4]. Essi aprirono la strada a De Brosses e Buffon a riscontrare che sotto gli strati e le lave del diluvio ci sono ancora tanti altri strati e lave che indicano non poche migliaia bensì molte decine di migliaia di anni. Così anche questa scoperta ha matrice italica, risonanza francese, e formalizzazione filosofica nell’ultima teoria della Terra, quella di Hutton. La scoperta della radioattività (Curie) e la sua applicazione (Rutheford) produrranno la conferma e l’ultimo, incredibile salto miliardario.

Gli stessi geologi ne rimasero sorpresi, quasi spiazzati, soprattutto quelli più dediti alla geomorfologia e alla geologia del sedimentario e dei processi rapidi e catastrofici, che sono anche oggetto primo della ricerca stenoniana. Per non parlare dell’uomo comune, anche acculturato, ma privo di memoria del passato, per cui i milioni di anni dei geologi ricordano, purtroppo, le favole e fanno sorridere.

Stenone quindi ha concepito la sua geologia nel quadro cronologico del ‘buon senso’, sia popolare che colto, in concordanza con la cronologia biblica e con quella secolare. Se aveva un problemino nel fare ciò, non riguardava il tempo breve a disposizione, ma semmai quello troppo lungo [46], visto il poco tempo che occorreva alle conchiglie per andare in frantumi (diversamente da Marsili, Steno si basava sulle sole esperienze di sedimentazione costiera). Quando nel Prodromus (p. 7) riporta le opinioni degli antichi autori si limita a una frase “nescio quam immemorabilem annorum seriem”, coerente con le cronologie biblica e secolare. E, pur avendo dato un’età numerica minima ai soli strati diluviani (< 4000 anni) [46], evidentemente assegnava agli strati precedenti l’età della Creazione, stimata intorno al 4000 a.C. Quanto di opposto scritto su questo tema in un recente libro italiano, nonostante l’apparente autorevolezza della sede, è da ritenere pura fantasia [47].

Certo, chi ammiri le scoperte geologiche di Stenone potrà restare deluso che egli sia rimasto appiattito nella cronologia breve del suo tempo. Ma chi ha fatto meglio di lui nei suoi tempi? Pochi, pochissimi, e ancora sempre primo, forse il solo inimitabile Leonardo, che non fa regola, ed è entrato nella storia della scienza solo a fine Settecento [45].

Per capire il motivo di questa che è la principale debolezza di Stenone, legata a doppio filo al suo diluvianismo, bisogna ritornare a Nicoletta Morello (1946-2006). È lei ad attribuire a Stenone l’ipotesi della formazione sedimentaria della crosta terrestre ([4], p. 251) che sta alla base della stratigrafia e dei relativi principi di orizzontalità e sovrapposizione iniziali. Certo, lo storico della geologia è colpito nel vedere quante volte nel De solido Stenone scriva la parola “strato”, ma ancor di più da Leonardo che scrive di “falde” di rocce e di terre. Anche Alberti nel 1452 e Agricola nel 1556 scrivono di strati, come pure Bartholin, Boccone e Buonamico, ben noti a Stenone; ma nessuno di loro ne parla con la competenza e l’originalità di Stenone. Quanto a Cartesio, teorizza una struttura a strati della crosta terrestre nei Principia (1644) ([4], p. 252), [48]. Peccato che ogni suo strato sia pervio e consenta il passaggio delle particelle che li costituiscono in ogni tempo.

Secondo Morello, la deposizione meccanica di materiali in sospensione in un fluido distribuito su tutta la superficie terrestre (un oceano primario e poi il Diluvio Universale) spiega la natura sedimentaria di quelle rocce [le più frequenti in superficie], l’orizzontalità degli strati, e induce “a ipotizzare la lentezza del fenomeno (dimostrata anche dalla tipologia dell’ammasso dei fossili)”. È questo l’unico labile accenno che ho trovato in letteratura che potrebbe far sospettare anche in Stenone una cronologia della Terra più estesa di quella biblica, ma oggettivamente non c’è prova arguibile. Sempre Morello continua dicendo che, diversamente da Cartesio, ogni strato si forma a un tempo definito, sovrapponendosi sopra il precedente già consolidato (e quindi non pervio). La sovrapposizione fornisce uno strumento di cronologia relativa che potrà utilizzare anche i resti degli organismi viventi nel fluido. Stenone bipartisce la successione degli strati in prediluviali o originari (di natura saxea e più antichi) e postdiluviali (di natura arenacea e più recenti). I primi sono azoici (e questo è uno degli errori sperimentali di Stenone), i secondi contengono fossili.

Con Marsili, Lehmann, Moro e soprattutto Arduino si cominciano ad abbozzare storie geologiche locali o tematiche più elaborate e complesse di quella della Toscana di Stenone, col tentativo di arrivare a scale stratigrafiche e cronologiche di valore sovra regionale o addirittura generale [21], [23], [49].

Evidentemente la lezione stenoniana non riguarda tanto il Diluvio, quanto la geologia sedimentaria, l’orizzontalità, la continuità, la discordanza (seppur non enfatizzata) e i fossili come indicatori di ambiente. Per Stenone i fossili erano anche indicatori postdiluviali, che gli consentivano quindi di fare una assai schematica storia geologica della Toscana, divisa in due tappe appunto, prediluviale ‘azoica’ e postdiluviale fossilifera. Pur se errata, era utile come procedura iniziale.

Anche sotto questo aspetto Leonardo era arrivato prima di Stenone e non aveva commesso alcun errore. Applicava uno schema duale e distingueva due intervalli di tempo, il primo costituito da rocce litoidi o “falde” (il termine che egli usa per indicare gli strati di Stenone) poste sotto e più antiche, e il secondo da “terre” (incoerenti) che sono sempre sovrapposte alle prime e più recenti [10], ([21], pp. 83, 90).

Leonardo e Stenone rimangono quindi appaiati nella bipartizione della scala proto stratigrafica relativa del tempo geologico, ma radicalmente diversi nel criterio di suddivisione, che per Leonardo è la litificazione e per Stenone il Diluvio.

Ma c’era differenza fra i due sulla durata del tempo geologico? Non mi ha mai sfiorato il dubbio che Stenone possa aver anche solo immaginato una cronologia della Terra diversa da quella biblica dominante ai suoi tempi, se non ubiquitaria nel mondo occidentale, dei vari Genebrardo (1567), Lightfoot (1654), e Husser (1650 e 1654) per cui la Creazione datava dal 4004 a.C., come ha ben scritto Nicoletta Morello [50]. Secondo lei, il Diluvio per Steno erode prima e ricostruisce poi, in vari cicli, la storia della Terra, incluse le catene montuose, che per Kircher invece erano state create direttamente da Dio fin dall’inizio come sono. In questo modo Stenone poteva disporre di uno strumento di cronologia per fare la storia geologica della Toscana che mancava completamente a Kircher (e agli altri autori). Quella storia individuava tre cicli nelle famose sei facies, con tutte le loro modificazioni evolutive. Nel testo riassuntivo del Prodromus Stenone non tradisce alcuna titubanza sulla veridicità scientifica della cronologia biblica. Ma altre culture, come quelle cinese e egizia, retrodatavano la storia dell’umanità e del mondo. Fu merito della geologia stenoniana far germinare il dubbio che valesse la pena di cercare prove fisiche dell’età della Terra fuori delle tradizioni sacre e di quelle storico-letterarie.

Così, senza mettere in discussione il Diluvio come fatto storico, ma seguendo le idee litogenetiche di Stenone nella formazione degli strati, Jacopo Grandi nel De Veritate Diluvij (1676) introduce un nuovo criterio cronologico a partire “dall’incremento annuo del suolo” (cioè tasso di sedimentazione, e spessore dei sedimenti) nei pozzi modenesi ([50], pp. 90, 91). Analogamente Francesco Bianchini, in La Istoria Universale (1697), perfeziona il criterio stratigrafico di Grandi utilizzando strati di lava prodotti da eruzioni vulcaniche di età storico-archeologica nota, in particolare quelle del Vesuvio. In una lettera a Buffon, prima di metà Settecento, Charles de Brosses apprezzava il criterio dello spessore degli strati di Grandi per ottenere età precise della Terra. Seguendo questo consiglio, oltre che il suo criterio di raffreddamento del globo (in piena Piccola Età Glaciale), Buffon cominciò a retrodatare l’età della Terra a molte decine di migliaia di anni nei suoi libri su Théorie de la Terre e Époques de la nature ([50], pp. 91, 92).

Cosa ne pensava Leonardo?

Potrà sorprendere, ma non è facile trovare letteratura su quale fosse il concetto di età della Terra in Leonardo. Neppure nei codici e nei manoscritti, dove ho cercato a lungo, e con me altri, come di recente anche Annibale Mottana [51], senza esito convincente. Leonardo non soffriva certo troppo di vincoli Scritturali, nonostante la sua fede religiosa, testimoniata, fra gli altri, da Vasari. Poi, all’improvviso, dopo una ricerca sistematica e non tematica, ecco apparirmi una frase chiara, indiscutibile, in un contesto solo apparentemente strano, dove Leonardo parla del sale:

Ma a dire meglio, essendo dato il mondo eterno, egli è neciessario che li sua popoli, sieno ancora loro eterni, onde eternamente fu e sarebbe la spezie umana consumatrice del sale; e se tutta la massa della terra fussi sale, non basterebbe alli cibi umani, per la qual cosa ci bisognia confessare, o che la spezie del sale sia eterna insieme col mondo, o che quella mora e rinasca insieme cogli omini d’essa divoratori8.

Sull’eternità della specie umana Leonardo si sbagliava di certo, ma sulla propensione a un’età della Terra ultra-biblica coglieva nel giusto.

Varrà la pena, per inciso, ricordare che proprio il tasso di accumulo dei sali nell’acqua del mare ha permesso a J. Joly nel 1899 di stimare per la Terra un’età di 100 milioni di anni (saliti a 300 nel 1930) [52].

Questa visione eternalista, quasi postulata a priori o da letteratura, esimeva Leonardo dal discutere i fatti e i processi che possono documentare un’età profonda della Terra, che veniva assunta come tale, pur non essendo chiaro a noi quali fossero i termini precisi dell’eternalismo leonardesco, o la sua derivazione. Tanto più che nello stesso passo del manoscritto G Leonardo aggiunge “il sale essere in tutte le cose create”. Infatti in passi in cui Leonardo si rivolge direttamente al tempo, quasi fatto persona, per descriverne gli effetti (Codice Atlantico, f. 71r; Codice Leicester, f. 31r; Codice Br. M, f.156r) non si avventura mai a parlare di tempi lontani. Anzi, riferendosi al centro del mondo, scrive che

se li muta al continuo el sito, delle quali mutazioni […] una ne si varia ogni 6 ore, e alcuna è fatta in molte migliaia di anni9

rimanendo in tempi relativamente brevi, almeno per questo caso. E anche la sua visione eternalista trova qua e là qualche limitazione come nella apocalittica e profondamente religiosa profezia

la fertile e fruttuosa terra abbandonata rimarrà arida e sterile e per rinchiuso omore dell’acqua […] tanto che, passata la fredda e sottile aria, sia costretta a terminare coll’elemento del fuoco; allora la sua superfice rimarrà in riarsa cenere, e questo sia il termine della terrestre natura10.

Ciononostante, a questo punto i percorsi dei due grandi padri della geologia divergono, con Leonardo che mantiene, come quasi sempre, la supremazia inventiva.

5. Conclusione

Due personaggi così diversi per storia, religione nativa, ed epoca di appartenenza hanno molte caratteristiche in comune. Quella più strabiliante consiste nell’aver scoperto i principi basilari della geologia stratigrafica nella stessa regione, la Toscana, l’uno per esservi nato, l’altro per esservi avventurosamente arrivato nella prima maturità, e ancor più avventurosamente pervenuto per ottenere riposo alle sue spoglie mortali.

Deve sorprendere di meno che l’eredità biblica della famiglia riformata abbia precluso a Stenone di ipotizzare un tempo geologico lungo, mentre la maggior libertà religiosa e l’irrefrenabile fantasia hanno evitato a Leonardo ogni preclusione sulla durata dei tempi cosmici. Stenone può consolarsi per aver reinventato la geologia degli strati, in cui leggere le tappe della storia della Terra e farne tessere agli eredi la scala miliardaria del tempo geologico.

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29. Miniati, S. Nicholas Steno’s Challenge for Truth, Franco Angeli: Milano, 2009; 331 p.

30. Cfr. Baratta, M. Leonardo da Vinci ed i Problemi della Terra; Fratelli Bocca: Torino, 1903; pp. 244-245.

31. Vai, G.B.; Cavazza,W. Ulisse Aldrovandi and the origin of geology and science. In Vai, G.B.; Caldwell W.G.E. (eds.), The Origins of Geology in Italy; The Geological Society of America Special Paper 411; The geological Society of America: Boulder, CO, 2006; pp. 43-63.

32. Guntau, M. Die geologischen Vorstellungen von Nils Stensen (1638-1686) über die erdgeschichtliche Vergangenheit von Versteigerungen; Beiträge Geologie Wissenschaftgeschichte: Dresden, 1996; 143 p. (pp. 85-87).

33. Gressly, A. Observations géologiques sur le Jura soleurois; Imprimerie de Petitpierre: Neuchatel, 1838; 349 p. (pp. 10-12, 20-25).

34. Oldroyd, D.R. Thinking about the Earth: A History of Ideas in Geology; Athlone: London; Harvard University Press: Cambridge, MA, 1996; 410 p.

35. Vail, P.R. Seismic stratigraphy and global changes of sea level. Bulletin AAPG., Memoir 26, 1977, 49-212.

36. Morello N. La nascita della paleontologia nel Seicento: Colonna, Stenone, Scilla; Franco Angeli: Milano, 1979; 265 p.

37. Berger, G. Leonardo da Vinci: Founder of the Science of Geological Facies. Lithology and Mineral Resources, 2005, 40, 89-91.

38. Edgerton, S.Y. The Renaissance Rediscovery of Linear Perspective; Basic Books: New York, 1975; xvii + 206 p.

39. Kemp, M. Leonardo on Painting, Yale University Press: New Haven, CT, 2001; 320 p.

40. Rosenberg, G.D. An artistic perspective of the continuity of space and the origin of modern geologic thought. Earth Sciences History, 2001, 20, no. 2, 127-155.

41. Laurenza, D. Storia del Codice Leicester dopo Leonardo. Nuove evidenze. In Galluzzi, P. (a cura di), L’acqua microscopio della natura. Il codice Leicester di Leonardo da Vinci, Catalogo della Mostra; Giunti: Firenze, 2018; pp. 267-287.

42. Mottana, A. Leonardo e la scoperta della storia della Terra. In Galluzzi, P. (a cura di), L’acqua microscopio della natura. Il codice Leicester di Leonardo da Vinci; cit., pp. 289-299.

43. Pedretti, C. (a cura di), Leonardo: Il Codice Hammer e la Mappa di Imola. Arte e Scienza a Bologna e in Emilia e Romagna nel primo Cinquecento. Catalogo della mostra di Bologna, Palazzo del Podestà, 1985; Giunti Barbera Edizioni: Firenze, 1985; 205 p.

44. Ziggelaar, A. The age of Earth in Niels Stensen’s geology. In: Rosenberg, D.G. (ed.), The Revolution in Geology from the Renaissance to the Enlightenment; cit., pp. 35-142.

45. Venturi, J. Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Léonard de Vinci; Duprat: Paris, 1797.

46. Cutler, A., H. Nicolaus Steno and the problem of deep time. In: Rosenberg, D.G. (ed.) The Revolution in Geology from the Renaissance to the Enlightenment; cit., pp. 143-148.

47. Pagano, P. Storia del pensiero biologico evolutivo; Enea: Roma, 2013.

48. Vai, G.B. Isostasy in Luigi Ferdinando Marsili’s manuscripts. In Vai, G.B., Caldwell, W.G.E. (eds.), The Origins of Geology in Italy; cit., pp. 95-127.

49. Vaccari, E. European views on terrestrial chronology from Descartes to the mid-18th Century. In Lewis, C.L.; Knell, S.J. (eds.), The Age of the Earth: From 4004 BC to AD 2002, Geological Society Special Publication 190; Geological Society: London, 2001; pp. 25-37.

50. Morello, N. Steno, the fossils, the rocks, and the calendar of the Earth. In Vai, G.B.; Caldwell, W.G. E. (eds.), The Origins of Geology in Italy; cit., pp. 81-93.

51. Mottana, A. Omaggio a Leonardo. Rendiconti Accademia Scienze Napoli, 2018, 85, 77-113, doi: 10.32092/1007.

52. Wyse Jackson, P.N. John Joly (1857-1933) and his determinations of the age of the Earth. In Lewis, C.L.E.; Knell, S.J. (eds), The Age of the Earth: from 4004 BC to AD 2002, cit., pp. 107-119.


1 L’amico e collega Troels Kardel mi ha chiesto di trascrivere il testo della lettera per verificarne la traduzione inglese, che però è stata stampata prima che egli la potesse completare [1].

2 Tutte le immagini sono pubblicate a colori nell’edizione online degli Annales.

3 Tutte le citazioni del Prodromo sono desunte dalla versione italiana di Luca Paretti in [28].

4 Codice Atlantico f. 327v già 119v.a, ma anche f. 597br già 221v.d, intorno al 1503.

5 La sterminata letteratura su Leonardo scienziato si va arricchendo anche in Italia col quinto centenario [41], [42] (v. anche [9]-[17]).

6 Ben descritta anche nei manoscritti, come nel caso dell’arrotondamento dei ciottoli “La confregazione de’ sassi l’un coll’altro nelli corsi fatti dalli fiumi consumano li angoli delle pietre (Codice Atlantico f. 433r ex 160v.a).

7 Codice Leicester, f. 8B, “le piene d’Arno torbido in quel mare versava”.

8 Manoscritto G., f. 49r.

9 Codice Atlantico, f. 102 rb.

10 Manoscritto Br. M, f.155v.