La comunicazione, ponte tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale

Silvano Tagliagambe

Professore emerito di Filosofia della scienza – Università di Sassari

Contributo presentato da Pierluigi Contucci

 

Abstract

Defining intelligence is problematic. I therefore share with Contucci the idea, proposed by him, on the basis of an intuition that has made its way into the era of artificial intelligence, that it is a relational, dynamic process, continually traversed by exchanges, codifications, selections and inhibitions. It is, first and foremost, communication. This statement now finds surprising confirmation also on a technical and philosophical level. The observation of the functioning of silicon brains that learn by iterations, errors and adjustments, reveals a dual structure of interaction: each connection between neurons can be excitatory or inhibitory, and the emergent quality of the whole system, i.e. its intelligence, depends as much on one as on the other. It is in the freedom of connections and their continuous communication, no matter whether cooperative or conflictual, that the possibility of learning is rooted.

Keywords

Communication, Action, Inhibition, Cooperation, Conflict.

© Silvano Tagliagambe 2025 / Doi: 10.30682/annalesps2503l

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1. Premessa

Definire l’intelligenza è problematico: condivido con Contucci [1] l’idea che essa sia, prima di tutto, comunicazione, un processo relazionale, dinamico, continuamente attraversato da scambi, codificazioni, selezioni e inibizioni.

Questa affermazione trova conferme sia sul piano tecnico che filosofico. Da una parte, l’osservazione del funzionamento delle reti neurali artificiali, che apprendono per iterazioni, errori e aggiustamenti, rivela una struttura duplice di interazione: ogni connessione tra neuroni può essere eccitatoria o inibitoria, e la qualità emergente dell’intero sistema, cioè la sua intelligenza, dipende tanto dall’una quanto dall’altra. È nella libertà delle connessioni e nella loro comunicazione continua, non importa se cooperativa o conflittuale, che si radica la possibilità dell’apprendimento.

Dall’altra parte, il pensiero filosofico, a partire da Kant, ci invita a riconoscere che non esiste conoscenza senza vincolo, né percezione senza struttura. I sensi non descrivono il mondo: lo interrogano. Il cervello, nella sua apertura all’ambiente, seleziona, filtra, interpreta. In questo gioco di vincoli e possibilità, la comunicazione non è un’espressione accessoria dell’intelligenza: è la sua condizione di esistenza.

Ne emerge il concetto di intelligenza come capacità di abitare l’incertezza attraverso un ordine relazionale che non è dato a priori, ma si costruisce per continuità di scambio, per tensione costante tra azione e inibizione, tra selezione e apertura, tra impulso e riflessione.

Questa prospettiva aiuta a sciogliere alcuni nodi semantici e teorici che da tempo affliggono il dibattito pubblico e accademico: l’equivoco tra mente e macchina, la confusione tra analogia e identità, la riduzione dell’intelligenza a calcolo o efficienza. Il filo conduttore qui proposto è che intelligenza e comunicazione, natura e artificio, non stanno agli estremi opposti di un continuum, ma si incrociano in uno spazio di possibilità condivise, di cui il linguaggio, e l’informazione che esso veicola, è il terreno comune.

C’è, in fondo, un principio che affiora con crescente chiarezza assumendo questo punto di partenza: l’intelligenza è il frutto di una continua metabolizzazione di conflitto e cooperazione, non come poli da armonizzare in una sintesi, ma come forme distinte e coessenziali di relazione, ciascuna con pari dignità, senza che si possa far “collassare” l’una nell’altra. Ciò che rende un sistema intelligente non è solo la loro alternanza o il loro equilibrio, ma la permanenza del canale che le collega: la comunicazione.

In questa luce, intelligenza è una condizione relazionale in cui a contare non è l’accordo o il disaccordo, ma il fatto che non si smetta di comunicare.

2. Il nesso tra intelligenza e comunicazione

Merito di Kant è quello di aver proposto [2] un approccio autocritico che mette in evidenza un aspetto fino a quel momento trascurato, e cioè che la conoscenza non può essere considerata un processo incondizionato e privo di vincoli. Lo aveva già messo in evidenza, con estrema chiarezza, nelle Lezioni di etica, tenute nel 1775-81, nelle quali si era soffermato sulla funzione determinante del riferimento alle diverse declinazioni del corpo, con le quali la ragione è inevitabilmente intrecciata: “il corpo costituisce la condizione assoluta della vita, a tal punto che noi non possiamo avere un’idea di un’altra vita se non mediante il nostro corpo e non ci è possibile usare della nostra libertà se non servendoci di esso […]. È mediante il corpo che l’uomo ha un potere sulla sua vita” [3] (p. 270).

Nella Critica della ragion pura questo aspetto viene ulteriormente approfondito partendo dall’idea che i sensi pongono al messaggio sensibile vincoli precisi determinati dal modo in cui è organizzata e funziona la nostra rete percettiva, che è in grado di “pescare” dall’ambiente circostante soltanto segnali e impulsi conformi alla sua struttura. Ogni volta che percepiamo uno stimolo scattano tre attività strettamente connesse tra loro, quella di sentire, quella di elaborare e quella di prendere coscienza. L’io che riceve questo stimolo è tutt’uno con i vincoli che i sensi pongono al messaggio sensibile, per cui le tre attività suddette sono limitate e condizionate da questi vincoli e non possono essere prese in considerazione senza fare riferimento a essi. Detto in parole povere noi percepiamo solo ciò che ci permettono i nostri sensi.

Le neuroscienze oggi hanno pienamente confermato questo approccio e l’hanno inserito all’interno di un quadro generale che chiarisce che il nostro cervello è un sistema aperto che agisce in stretto legame con l’ambiente nel quale è inserito, dal quale non può essere separato. Diventa quindi cruciale la relazione tra l’organismo e il suo specifico mondo. Ciò significa che se è vero che non può esistere un organismo senza un ambiente, altrettanto vero è che l’ambiente al quale dobbiamo far riferimento quando parliamo di un determinato organismo non è quello generico e indifferenziato, il mondo fisico che continuerebbe a esistere anche in assenza della specie al quale esso appartiene, bensì quello caratterizzato dal complesso di stimoli che gli sono specifici e che è in grado di recepire, e che sono pertanto compresi in una rete che porta alla sua esistenza. Ogni forma di vita ritaglia il proprio ambiente secondo le strutture percettive e la conformazione che la contraddistinguono. Uno stimolo per essere tale non deve solo prodursi ma deve anche essere avvertito, presuppone cioè l’interesse e la capacità ricettiva del vivente; dunque, non proviene dall’oggetto ma dalla domanda del vivente. Di tutta la ricchezza di cui un determinato ambiente è costituito, in quanto elargitore di perturbazioni potenzialmente illimitate, l’organismo non ritiene che alcuni segnali. Ciò che chiamiamo “ambiente” per l’organismo rappresenta pertanto una selezione di parte dell’intero ambito territoriale che solo esso riesce a percepire. Ciò che l’ambiente offre al vivente è funzione della domanda stessa.

Ogni nicchia coevolutiva umana è anche una nicchia culturale, per cui non si tratta solo di una descrizione biologica, ma di quella che Laland, Odling-Smee e Feldman chiamano una “prospettiva eco-cognitiva” [4] (pp. 131-175).

Nella relazione che s’instaura tra il nostro cervello e il suo ambiente i sensi non sono interessati a sapere come è fatto il mondo e a rappresentarselo: la loro funzione è di metterci in contatto con il mondo e farci agire di conseguenza. Le loro priorità sono quella di percepire velocemente, piuttosto che con precisione, qualora velocità e precisione fossero in conflitto, e quella di rilevare il movimento e i cambiamenti, piuttosto che le persistenze. Tutto ciò chiarisce la differenza tra attività cerebrale e percezione cosciente della stessa.

Dal punto di vista biologico, la nostra osservazione del mondo non è contemplativa e rappresentativa: non c’è percezione che non sia finalizzata all’azione, non c’è rilevamento di stimolo che non sia un suggerimento per la messa in atto di un comportamento, possibilmente il più appropriato. I nostri sensi non osservano il mondo, ma lo interrogano sulla base di domande predefinite con risposte che lo sono quasi altrettanto. Tutto il nostro sistema nervoso ha per compito principale il produrre e lo scambiare messaggi tra il mondo e noi, tra noi e noi e tra noi e la vita. Ecco perché la comunicazione è cruciale e può essere considerata la funzione fondamentale di un sistema intelligente. Possiamo considerare il mondo come tutto ciò che ci circonda e ci manda continuamente messaggi, alcuni sotto forma di stimoli, altri no. Ciascuno di noi è un organismo che vive nell’ambiente, ne riceve cose e messaggi, che i nostri sensi attendono e vagliano: dobbiamo decidere se restare inerti, bloccare o trasmettere alla nostra potente “antenna” interna, la coscienza. La scelta che ne consegue ha dunque due opzioni fondamentali: trasmettere o bloccare, proseguire con l’azione o attivare l’inibizione, per cui il nostro pensiero è in primo luogo il risultato della scelta tra queste due alternative. Se la comunicazione è la funzione e il compito principale dei sistemi intelligenti la loro vita può essere considerata un susseguirsi e un intrecciarsi di messaggi in uscita e in entrata.

Un altro pregio dell’approccio qui seguito è che esso stabilisce un parallelismo tra una rete neurale artificiale, nelle sue caratteristiche principali, e quelle naturali che si trovano all’interno del nostro cervello, mettendone in evidenza le affinità e le convergenze. Approfondire questo punto è fondamentale per capire la relazione tra l’intelligenza naturale e quella artificiale.

La convergenza tra di esse si basa sul fatto che il messaggio nervoso è una codificazione e non è molto diverso da una digitalizzazione. Non sono solo il linguaggio e l’informazione genetica ad avere una struttura digitale, ma anche la generazione e la trasmissione degli impulsi nervosi. Il neurone che deve inviare un messaggio deve prima di tutto decidere se farlo o non farlo, e, in secondo luogo, di che forma farlo. Per quanto riguarda il primo punto il processo di esecuzione è basato sul tutto o nulla, il che costituisce il primo esempio di digitalizzazione, senza gradazioni, senza alternative diverse dal si o dal no.

Nella relazione cruciale tra il cervello e l’ambiente esiste un passo di codificazione obbligata, addirittura forzata. Il soggetto conoscente non percepisce quello per cui non è attrezzato: il suo ricettore sensoriale, a qualsiasi senso appartenga, non percepisce altro che ciò che può ricevere in quel momento grazie alla sua particolare condizione. La ricezione di messaggi, la parte conclusiva del processo di comunicazione, è pertanto un evento che si alimenta di stimoli esterni, ma che non può assolutamente aver luogo se i recettori sensoriali implicati non sono nella condizione giusta. Per questo, in fondo, il segnale si limita spesso a dire semplicemente sì o no, perché la domanda è già contenuta nella condizione in quel momento del ricettore.

La codificazione è quindi un elemento essenziale, costitutivo della nostra percezione del mondo. Un segnale nervoso non parte se non è stato adeguatamente codificato. Lo studio della relazione tra l’intelligenza naturale e quella artificiale ha, come primo e fondamentale compito, quello di esplorare quanto ci sia di digitalizzazione in questa codificazione.

Per impostare in modo adeguato e avviare questo tipo di analisi è necessario chiarire preliminarmente cosa sia l’informazione, in modo da intendere bene come essa possa essere registrata, memorizzata e trasmessa. Si può parlare di informazione contenuta in un sistema di qualsiasi tipo quando l’azione di questo su altri sistemi è determinata in maniera essenziale non dalla mera quantità o natura dei suoi elementi, ma dalla loro disposizione, cioè dall’insieme delle operazioni e relazioni interne, vale a dire da quello che, tecnicamente, si chiama “struttura”.

Si parla poi di trasmissione di informazione quando la riproduzione di una struttura dà luogo a repliche contenenti la stessa informazione. Entrambi i fenomeni, com’è noto, sono essenziali per la conoscenza ma anche per la vita.

Detto diversamente e in modo più informale e accessibile: si parla di informazione se in macrostrutture simili sono riconoscibili microstrutture differenti. La chiave della mia automobile, del tutto simile alla tua apre, a differenza di questa, la portiera della mia vettura, per cui si può dire che nella microstruttura di questa chiave è contenuta un’informazione che viene trasmessa alla serratura, consentendo di aprirla.

Un altro aspetto da considerare è che non esiste informazione senza supporto. L’informazione è sempre “portata da”, o “trasmessa su” o “memorizzata in” o “contenuta in” qualcosa; questo qualcosa non è l’informazione stessa, come si evince dal fatto che la stessa informazione può essere scritta su supporti differenti e che lo stesso supporto materiale può veicolare informazioni differenti. Alcuni supporti, come ad esempio l’aria, sono particolarmente adatti alla trasmissione dell’informazione, ma non alla sua memorizzazione; per poter parlare di informazione e di sua memorizzazione sono decisive la stabilità e la solidità del supporto materiale in cui l’informazione medesima è contenuta.

Per essere registrata e trasmessa l’informazione va pertanto codificata, in genere su un materiale diverso da quello nel quale si è originata. Per essere registrati e trasmessi un discorso o una conversazione devono essere codificati: l’onda sonora corrispondente deve essere trasformata in un’onda elettrica o elettromagnetica, inclusa, oggi, un’onda luminosa. La codificazione può essere analogica, che riproduce punto per punto nella maniera migliore possibile il profilo dell’onda di partenza, o digitale, nel qual caso questo profilo è trasformato in una raccolta di dati numerici. Sono esclusivamente questi dati a essere registrati o trasmessi, e sulla loro base verrà poi ricostituita l’intera onda di partenza, o una sua copia abbastanza fedele. La teoria dell’informazione e l’elettronica ci dicono che procedendo in tal modo si guadagna molto in termini di fedeltà e di affidabilità. L’informazione catturata dai sensi si origina già in maniera codificata, attraverso un meccanismo di codificazione digitale estremamente efficiente e piuttosto selettivo.

Se analizziamo poi l’immagine complessiva che viene percepita da ciascun senso ci accorgiamo che alla base della sua composizione c’è una miriade di piccole sensazioni, distinte e individualmente esperite a livello dei recettori sensoriali periferici, che si completano tra loro e infine si fondono. A fornirci questa immagine completa e continua, facilmente interpretabile, è la corteccia cerebrale che utilizza in maniera appropriata e mette insieme, attraverso un processo di elaborazione secondaria, ciò che viene trasmesso dai singoli sensi. Questo processo integrativo non è istantaneo ma richiede diverse decine di millesimi di secondo: ad esempio nel caso della visione l’immagine della medesima scena si forma e si riforma varie volte nella corteccia visiva, con modalità diverse e interessando aree visive differenti e spazialmente distinte: non si può vedere senza il concorso e la confluenza delle rappresentazioni date in queste diverse aree. È solo dal serrato dialogo di queste ultime e delle rappresentazioni della stessa scena che esse contengono che si può ottenere l’immagine visiva definitiva. Per compiere questo lavoro ci vuole tempo e una perfetta organizzazione interna. C’è tutta una serie di osservazioni sperimentali che confermano l’esistenza di mezzo secondo di ritardo della coscienza sugli eventi cerebrali: e la nostra corteccia cerebrale sente il bisogno di ricostruire l’andamento dei fenomeni in modo da farci credere che questo ritardo temporale non ci sia stato, per cui ci fornisce la sensazione di prendere coscienza di un evento quasi istantaneamente. Noi viviamo dunque nel ricordo: il nostro, come sottolinea il titolo di un’opera di Edelman, è sempre un “presente ricordato” [5].

3. Centralità della coppia opposizionale azione/inibizione

La distinzione operata tra un’informazione che non è oggetto di un processo di trasmissione, in quanto è già contenuta nella rete delle relazioni di una determinata forma o struttura, e l’interazione, che invece presuppone un trasferimento dell’informazione che richiede tempo, ci consente di tornare alla questione di cui parla Contucci: il fatto che il segnale che parte da un mittente e viaggia verso i destinatari non giunge identico a ciascuno di essi. Ogni connessione, infatti, è diversa e dipende dalla peculiare natura del legame sinaptico, ossia dalla relazione che esiste tra i due neuroni. Il fatto cruciale è che questa relazione può essere di due tipi strutturalmente opposti, che provocano, rispettivamente, una risposta eccitatoria o inibitoria.

La teoria dell’inibizione fu proposta da Ivan Michajlovič Sečenov nella sua celebre opera del 1866, comparsa con il titolo Refleksy golovnogo mozga (I riflessi encefalici), dopo che la censura aveva rifiutato quello originariamente scelto da lui, e cioè Popytka vvesti fiziologičeskie osnovy v psichičeskie processy (Tentativo di porre i processi psichici su basi fisiologiche). In questo suo lavoro vengono forniti i primi elementi di una teoria generale dell’inibizione interna, secondo la quale essa non sarebbe una forma di esaurimento del sistema nervoso, ma rappresenterebbe un processo attivo, che controlla in particolare l’attività sistemica dell’organismo. In tutti i casi di inibizione di una qualsiasi attività globale organica si deve ricercare un’altra attività che la inibisce. Qualsiasi attività globale dell’organismo e del sistema nervoso dimostra la tendenza a essere esclusiva, unica, e l’inibizione rappresenta lo strumento costante per eliminare altre attività di tipo competitivo. Comincia in tal modo a essere messa in risalto la natura proattiva dei processi cerebrali, con il passaggio da una fisiologia delle reazioni ad una fisiologia dell’attività, e il riferimento a un substrato fisiologico che permette di concepire le funzioni cerebrali come un processo di continuo confronto tra i risultati effettivamente ottenuti e il programma d’azione originario.

Il contesto ambientale e le necessità biologiche in cui un organismo si trova in un determinato momento gli consentono di effettuare una “sintesi afferente” che insieme ad attenzione memoria e percezione costituisce la base su cui viene sviluppata l’elaborazione di una determinata “presa di decisione”. Una volta fatto ciò il sistema nervoso centrale elabora, contemporaneamente, un “programma d’azione”, necessario per dare attuazione a questa decisione, e un modello di controllo dei risultati dell’azione stessa, che rappresenta una previsione dei risultati finali e della loro congruità con gli obiettivi che ci si è proposti di conseguire. È il modo attraverso il quale il nostro organismo ci garantisce la massima efficacia dell’azione e ci permette di agire e di apprendere senza cadere nella più dispendiosa attività per prova ed errore. Una volta portata a compimento l’azione, i suoi esiti produrranno determinate afferenze di ritorno che verranno poste a confronto con quanto precedentemente previsto. In caso di coincidenza tra quanto previsto e quanto effettivamente ottenuto lo scopo dell’azione sarà stato soddisfatto e il ciclo dell’Atto Comportamentale potrà dirsi concluso. Nell’eventualità contraria verrà rilevata un’incongruenza: un segnale di “errore” darà avvio ad azioni di ri-orientamento della sintesi afferente, in modo da renderla più accurata ed efficace, o alla riformulazione di un piano d’azione alternativo basato su una nuova presa di decisione. Il nostro cervello elabora pertanto un’immagine di quanto prevede gli occhi debbano vedere. Questa informazione è inviata dal cervello verso gli occhi attraverso stati intermedi. Solo se viene rilevata una discrepanza fra quanto il cervello si aspetta e la luce che arriva agli occhi i circuiti neurali mandano segnali verso il cervello.

All’interno di questa visione generale, il pensiero è articolato in tre fasi distinte ma intimamente connesse tra loro. La prima è quella del “pensiero orientato e diretto verso l’oggetto”, che si presenta in forma ancora contaminata dalla percezione sensibile e che contraddistingue la fase di sviluppo antecedente al possesso del linguaggio. Questa fase iniziale è quella in cui il pensiero stesso appare soprattutto sotto forma di automatismi sensoriali, che si compiono sulla base delle azioni più immediate e dirette con gli oggetti con i quali si entra in contatto. La seconda fase è quella del “pensiero simbolico”, che si sviluppa grazie all’intervento determinante del linguaggio. La parola subentra all’oggetto della percezione e lo sostituisce, consentendo di prendere le distanze da esso: viene così avviato un passaggio, sempre più marcato, del baricentro del processo conoscitivo dall’esterno all’interno [6], che prelude alla fase più elevata e complessa, la terza, quella del “pensiero astratto”, in qualche modo sottratto all’influsso dell’apparato percettivo.

La base di partenza del pensiero, soprattutto nelle sue due prime espressioni, è “il raffronto tra gli oggetti che costituiscono il suo materiale di elaborazione l’uno con l’altro sotto una qualche relazione” [7] (p. 277). Ad acquisire una funzione determinante non sono quindi le proprietà degli oggetti con i quali si entra in contatto ma le relazioni tra di essi, in particolare, quella di somiglianza e differenza; quella di contiguità nello spazio, cioè la relazione di coesistenza; quella di successione nel tempo. Il pensiero astratto trasforma queste relazioni in nessi causali e in legami soggetti alla giurisdizione e al vincolo di una legge.

Quello prospettato da Sečenov è dunque un approccio capace di tenere insieme cervello, corpo ed esperienza e che mira a spiegare l’origine corporea della capacità simbolica dell’essere umano attraverso l’articolazione interna del pensiero di cui si è detto: A essa corrispondono degli “equivalenti fisiologici”, relativi a ciascuna delle sue fasi, che costituiscono la base universale della struttura del pensiero medesimo, indipendente da ogni differenza. L’infrastruttura delle varie manifestazioni del pensiero orientato agli oggetti è ad esempio rappresentata da tre differenti reazioni di percezione, due delle quali, quelle collocate agli estremi, riguardano gli oggetti verso i quali è diretta l’attenzione, mentre quella intermedia stabilisce il tipo di relazione che li lega: “A un nesso corrisponde perciò sempre una reazione motoria di un organo di senso, che entra a far parte della composizione dell’atto percettivo” [7] (p. 363). Nei processi di analisi e sintesi che si sviluppano nelle pratiche conoscitive assumono particolare rilievo le azioni che si esercitano sugli oggetti, “in particolare, il movimento delle mani con il quale si cerca di afferrarli e quelli che puntano invece a dividerli in parti e a ricomporli” [7] (p. 376).

La conoscenza viene così radicata nella dimensione motoria del nostro corpo, ovvero nel movimento e nell’azione, sin dall’insorgere dell’attività percettiva, che della conoscenza è parte attiva e co-determinante.

Visto in quest’ottica il pensiero non è produzione attiva, bensì inibizione, conseguenza del differimento di un’azione di risposta sino al momento in cui non si siano presentate le condizioni opportune per un suo efficace dispiegamento. Esso è dunque l’effetto dell’azione dei meccanismi cerebrali inibitori dei riflessi, che introducono elementi di variazione e nuove articolazioni nel campo delle azioni riflesse. In questo modo viene fatto progressivamente emergere, accanto al dominio dell’effettualità, quello delle risposte immediate e dirette, il regno della possibilità, dando avvio a un rapporto sempre più complesso tra quest’ultima e la realtà. All’automaticità delle azioni riflesse pure cominciano così ad affiancarsi forme miste, risultato della combinazione delle prime con elementi psichici, come la paura e il piacere, che sono determinanti primordiali, dettati dall’istinto di conservazione e capaci di sospendere o rafforzare i moti riflessi. Dietro il pensiero si affaccia così la componente emotiva, che ha una funzione importante nell’orientarne i contenuti [6]. Riprendendo e sviluppando le conclusioni di un suo articolo del 1861, dal titolo Dve zaključitel’nyh lekcii o značenii tak nazyvaemych rastitel’nych aktov v životnoj žisni (Due lezioni conclusive sul significato dei cosiddetti atti vegetativi nella vita animale), dove aveva proposto l’idea di un’unità indissolubile tra gli organismi e le condizioni ambientali in cui si svolge la loro esistenza, Sečenov nella sua opera principale riafferma l’impossibilità anche soltanto di pensare la vita indipendentemente dall’ambiente esterno che l’alimenta. Per questo nella stessa definizione scientifica di organismo, a suo parere, deve entrare necessariamente il riferimento non solo a quest’ambiente e all’influenza che esso esercita fin dall’inizio sulle funzioni e sull’attività dell’organismo medesimo, ma anche ai principi che sono alla base della regolazione e del mantenimento dell’equilibrio tra i due termini di questa relazione costitutiva. Ciò che chiamiamo “istinto di conservazione” è l’espressione della presa d’atto, da parte dell’organismo, dell’importanza determinante, ai fini della propria sopravvivenza, dell’ambiente e di un rapporto equilibrato con esso: e la paura e il piacere, a conferma del nesso indissolubile tra i processi cognitivi e la componente emotiva, sono le manifestazioni più immediate e dirette della percezione di una maggiore o minore lontananza di questo obiettivo.

Grazie all’intervento di questi elementi psichici l’organismo impara a “controllare” le proprie azioni e a distribuirle nel modo più opportuno nel tempo. Alle passioni, corrispondenti a riflessi psichici tendenti al rafforzamento, comincia così a subentrare la capacità di sospendere il movimento sulla base di un calcolo. La facoltà di riflettere e ragionare è l’espressione di questa capacità, sviluppata in modo particolare dall’uomo, di “conservare l’ultimo anello di un riflesso”. Si capisce così il senso della definizione che Sečenov propone del pensiero come un processo “costituito dai primi due terzi di un riflesso psichico”, nel senso che esso comprende l’inizio del processo, cioè l’eccitazione sensoriale proveniente dalla realtà esterna, e la sua continuazione sotto forma di reazione che essa provoca all’interno dell’organismo, mentre manca, appunto, il terzo ed ultimo anello, quello della risposta sotto forma di movimento e di azione, che viene “congelata” e rimandata a un momento più propizio.

4. P.A. Florenskij: la coscienza punto focale immaginario di un’azione trattenuta

La proposta di Sečenov ebbe immediatamente vasta eco nell’ambiente culturale russo, come risulta dalla testimonianza diretta di N.E. Vvedenskij, suo allievo e immediato successore nella cattedra di fisiologia dell’Università di San Pietroburgo, a giudizio del quale “probabilmente negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso non c’era in Russia nessuna persona di una certa cultura che non avesse letto la sua opera” [8] (p. 75).

Essa viene ripresa e rielaborata dal teologo, matematico e filosofo Pavel Florenskij, profondo conoscitore della tecnologia, e posta alla base della sua definizione della coscienza, la quale, a suo giudizio: “è un riflesso speculare, il punto focale immaginario di un’azione trattenuta. È evidente che, se è così, tale punto focale sarà la raffigurazione – finanche immaginaria – non di una qualche cosa, ma proprio di quella determinata azione trattenuta. I raggi che, intersecandosi, formano un quadro dell’azione trattenuta sono, pur se immaginari, la prosecuzione di quegli stessi raggi trattenuti. […] Di conseguenza l’azione può o realizzarsi direttamente, espandendosi nella sua naturale, per così dire, grandezza e disperdendosi nel mondo circostante, oppure può trattenersi, accumularsi, accrescendo il proprio potenziale, può riflettere, raccogliersi, dare una raffigurazione immaginaria, e tale immagine si realizza allora in un altro ambiente, che solo mentalmente si riflette nell’ambito della natura, e della natura pare una parte, ma che in realtà, essendo corpo, del corpo risulta essere una prosecuzione, una sorta di corpo umano germogliato nella natura” [9] (p. 158).

Prendendo avvio da Sečenov Florenskij fa propria la centralità dell’inibizione, l’approfondisce e ne fa la base teorica di un processo di pensiero nel quale le mente costruisce sé stessa nell’ambiente circostante, trasferendosi in altri spazi e dando luogo, attraverso l’immaginazione produttiva, alla prosecuzione dell’azione interrotta a cui riesce a fornire una espressione incarnata [10], “un impulso materializzato che chiamiamo strumento”. Siamo dunque in presenza di “raggi immaginari”, di un’azione puramente virtuale, che di colpo si sposta in un altro ambiente, con il quale la mente arricchisce e potenzia l’ambito della natura esterna, l’insieme dei suoi oggetti separati e distinti, ma che, in realtà, risulta una sorta di prosecuzione del corpo.

Il tema della tecnica come espressione di questa relazione che la mente intrattiene con la materia, cioè con la propria alterità per antonomasia, e che costituisce la sostanza stessa della sensibilità, è cruciale in Florenskij e viene non a caso ripreso nei due saggi [11] e [12], Si tratta di un rapporto immaginale, financo “allucinatorio” [12] (pp. 198-199), espressione della convinzione che, come la percezione ha in sé una certa dimensione allucinatoria o illusionistica, ugualmente qualunque attività organica avrà il carattere di un’immaginazione produttiva: “I prodotti della creazione possono e devono essere visti quali sogni incarnati, fantasie reificate, allucinazioni materializzate e consolidate. […] Anche gli strumenti della tecnica altro non sono che simboli della nostra vita interiore concretizzatisi nella materia – e proprio nella materia solida –, modi d’essere della nostra relazione con la realtà, con l’ambiente” [13] (p. 202).

Siamo così posti di fronte a un campo di tensioni che, come si è detto, tiene assieme mente, corpo e ambiente, sdoppiato in un aspetto passivo, una “materia morfogenetica” e in uno attivo, una “energia morfogenetica” [13] (p. 207). Si tratta di un’attività irriflessa, “sovracosciente”, “oniropoietica” [13] (p. 207) della vita stessa: una sorta di immaginazione trascendentale, irriducibile a un soggetto, che si rifrange “come in sogno” in spazi forieri di una propria “precipua infinità”.

Florenskij la definisce ancora “fantasia produttiva e artistica” [12] (p. 194), capace, nella sua smisurata fecondità, di “disegnare le sue immagini con incredibile pienezza, imponenza e forza. […] Immagini dal valore non inferiore a quelle della vita diurna, non uguali e non peggiori, ma diverse, con le proprie gradazioni e una propria logica” [12] (p. 194).

Questa fantasia produce un rovesciamento di prospettiva, un’inversione del senso del mondo, impossibile sul piano fisico, ma che può tuttavia essere descritta, dapprima psicologicamente nello spazio-tempo “teleologico” dei sogni, che procede “dagli effetti alle cause”, come viene detto all’inizio di Ikonostas [14]; poi, geometricamente, nel saggio sui Punti Immaginari, come il passaggio a velocità infinita, attraverso uno “spazio fratto”, a superfici negative: “Una realtà altra, [dove] intervengono allora condizioni qualitativamente nuove per l’esistenza dello spazio, caratterizzate da parametri immaginari […] Possiamo immaginare tutto lo spazio come doppio, in quanto costituito dalle superfici reali e da quelle immaginarie, ma il passaggio dalla superficie reale a quella immaginaria è possibile solo fratturando lo spazio e girando il corpo dentro di sé” [15] (p. 62).

Anche l’oggetto tecnico è la manifestazione di una analoga dicotomia, in quanto presenta una bipolarità intrinseca, espressa da una faccia rivolta all’interno, centripeta e individuale, e un’altra rivolta all’esterno, centrifuga e relazionale. Mentre la prima esibisce una sua singolare specificità, una sua unità funzionale, la seconda tende a differenziarsi e mutare costituendo un tramite tra realtà eterogenee, un’entità intermedia tra i corpi e il mondo. Parola e strumento producono ugualmente “un canale di collegamento tra ciò che finora era separato”, azzerando la distanza spaziale in un singolo punto di confluenza, e presentandosi quindi come “un isotopo ontologico” [16] (p. 33). Qualunque prodotto della tecnica stabilisce nella sua duplice frontalità un simile grado zero di separazione. La parola e lo strumento, hanno entrambi una natura comunicativa, e fungono efficacemente da raccordo tra il mondo interiore e la realtà esterna proprio in virtù del fatto che sono, ugualmente, tanto una parte dell’ambiente che circonda l’organismo, quanto “un’azione-organo, in quanto l’oggetto non può essere pensato al di fuori della sua funzione, e ogni membro del corpo costituisce un tutt’uno inscindibile con l’azione che compie” [11] (p. 160).

5. I due sistemi di pensiero e i bias cognitivi

A proposito della relazione tra informazione e comunicazione è di particolare rilievo la distinzione tra due sistemi di pensiero che usiamo nella vita quotidiana operata da Amos Tversky e Daniel Kahneman, entrambi psicologi cognitivi israeliani. Al secondo, e non anche al primo, deceduto prematuramente nel 1996, nel 2002 è stato conferito il Premio Nobel dell’economia (“per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza”):

il Sistema 1, intuitivo, veloce e automatico: opera in fretta e automaticamente con poco o nessuno sforzo cognitivo e nessun senso di controllo volontario;

il Sistema 2, deliberativo, logico e lento, associato al pensiero critico: indirizza l’attenzione verso le attività mentali impegnative che richiedono focalizzazione, come le situazioni e i calcoli complessi.

Questi due sistemi sono mutuamente esclusivi, nel senso che quando ci concentriamo in un compito che esige la focalizzazione dell’attenzione, tipica del Sistema 2, non riusciamo a prestare attenzione a nient’altro. Essi hanno una diversa accessibilità, termine con il quale ci si riferisce al grado di facilità e immediatezza con il quale i contenuti di pensiero vengono in mente. Ovviamente il Sistema 1, per il basso livello di sforzo cognitivo che richiede, ha un grado di accessibilità molto più alto del Sistema 2. Si tratta di un aspetto di estrema importanza e che non può essere ignorato, in quanto l’accessibilità condiziona le nostre decisioni, poiché caratteristiche facilmente accessibili influenzano le nostre scelte, mentre quelle di bassa accessibilità tendono a essere ignorate.

Gli errori sistematici, che Kahneman e Tversky chiamano “bias cognitivi”, sono spesso causati proprio da questa accessibilità differenziale e dalla tendenza a sostituire uno specifico attributo obiettivo di un oggetto di giudizio, che ha tratti di bassa accessibilità, con un attributo euristico correlato, che ha caratteristiche di elevata accessibilità e viene più prontamente in mente.

Queste idee di Kahneman e Tversky sono state riprese e approfondite dalle neuroscienze, che hanno evidenziato i processi cerebrali sottostanti alla differenza tra questi due Sistemi e i rispettivi gradi di accessibilità. Il 5 novembre del 1996, ad esempio, Joseph Ledoux, direttore del Center for the Neuroscience of Fear and Anxiety di New York, ha rilasciato un’intervista al New York Times in cui ha teorizzato la presenza di quella che ha chiamato la “doppia via” di elaborazione dell’informazione da parte del cervello, che può essere così schematizzata:

 

La via rossa (The low road) corrisponde al Sistema 1 di Kahneman: è veloce e immediata, in quanto lo stimolo passa direttamente dal talamo sensoriale all’amigdala e produce una risposta di tipo emotivo che taglia fuori i processi cognitivi della Corteccia sensoriale, che sono invece implicati nel Sistema 2.

È importante sottolineare che questi due sistemi oggi si affidano sempre di più a input di informazioni che provengono da strumenti tecnologici basati sui dati (ad esempio, la ricerca Google, Google Maps, ChatGPT e altri assistenti AI). Questi strumenti elaborano grandi quantità di dati e forniscono informazioni curate agli utenti, agendo di fatto come intermediari tra il mondo esterno e i nostri sistemi cognitivi. Pertanto, i Sistemi 1 e 2 non operano più esclusivamente su informazioni acquisite tramite esperienza diretta o fonti tradizionali, ma sono ora fortemente influenzati dagli output di questi strumenti basati sui dati. Ad esempio, se ci troviamo di fronte a una domanda (come “dove trovare la strada per tornare a casa”) o a una scelta, la nostra risposta intuitiva immediata (Sistema 1) e il nostro ulteriore pensiero analitico (Sistema 2) di solito attingono alle informazioni recuperate e sintetizzate dai motori di ricerca, dalle basi di conoscenza o dagli assistenti conversazionali alimentati dall’intelligenza artificiale. Questa integrazione della tecnologia nei nostri processi cognitivi è diventata così fluida che potremmo non riconoscere nemmeno consapevolmente la misura in cui il nostro pensiero è modellato da questi sistemi esterni basati sui dati.

Dobbiamo pertanto riflettere su come stia cambiando il modo in cui gli esseri umani pensano e prendono decisioni chiedendoci, in particolare, se alcuni degli strumenti tecnologici recenti e in evoluzione, in particolare i sistemi di intelligenza artificiale (IA) basati sui dati, stiano di fatto diventando un’estensione delle nostre menti, come afferma la tesi della mente estesa, proposta nel 1998 da Andy Clark e David Chalmers [17], basata sull’ipotesi che alcuni artefatti esterni possano essere integrati funzionalmente nei nostri processi cognitivi, formando un sistema cognitivo più ampio. Essa parte dal presupposto che se, nell’affrontare un certo compito, una parte dell’ambiente funziona come un processo che non avremmo esitazione a considerare parte del processo cognitivo se si realizzasse nella testa, allora quella parte dell’ambiente va considerata una componente della cognizione, i cui processi, pertanto, contrariamente a ciò che si crede, non sono tutti nella testa. Ciò significa che la mente umana si estende oltre i confini del corpo è distribuita sempre più nell’ambiente naturale e sociale.

6. Conclusione

La compresenza di impulso e riflessione, come le altre rilevate in precedenza tra azione e inibizione, tra selezione e apertura, tra percezione e immaginazione, è una delle idee guida fondamentali del pensiero di Florenskij, secondo il quale per pensare spesso, piuttosto che escludere, abbiamo bisogno di accoppiare, di far interagire e di mantenere in uno stato di mutua tensione cose solo apparentemente incompatibili.

Questa coesistenza di opposti lo porta a definire la verità come “intuizione-discorso”. A suo giudizio essa “è un’intuizione dimostrabile, ovvero è discorsiva. Per essere dimostrabile (discorsiva), l’intuizione non deve essere cieca, ottusamente limitata, ma deve aprirsi sull’infinito, deve, per così dire, essere parlante, ragionevole. D’altra parte, la discursio non deve andare nell’indefinito, deve essere non solo possibile ma reale, attuale” [18] (p. 51).

Questa concezione della verità come coincidentia oppositorum è necessaria se non si vuole rimanere intrappolati nell’idea kantiana di un noumeno inconoscibile: anche se tra quest’ultimo e il fenomeno è presente una linea di demarcazione che non può essere eliminata bisogna, tuttavia, partire dal presupposto che: “il confine è la demarcazione che separa il visibile dall’invisibile, la terra dal cielo: esso non è un muro, pur distinguendoli unisce, mette in comunicazione i due elementi, altro non è che il loro punto di contatto. […]. Eppure, nonostante quest’ultimo, essi differiscono tanto che non può non sorgere il problema della ‘linea di confine’ di quel contatto” [19] (p. 19).

Ancora una volta la centralità della comunicazione, dunque. La relazione che sussiste tra il fenomeno e il noumeno secondo Florenskij può essere assimilata a quella tra il visibile e l’invisibile, per cui anche in questo caso il confine ha la duplice funzione di linea di demarcazione e di ponte che mette in comunicazione: “anche in noi stessi il vivere nel visibile si alterna con il vivere nell’invisibile. E perciò ci sono momenti – seppur brevi, ridotti, a volte della durata di un solo istante – quando i due mondi si toccano e noi possiamo contemplarne il contatto” [19] (p. 19).

Postulare questo punto di contatto è fondamentale, perché se non si riesce a cogliere il nesso tra ontologia ed epistemologia, cioè tra la realtà in sé e la sua conoscenza, e non si perviene a pensare che ogni ontologia è sempre anche epistemologia e viceversa, la questione della verità diventa un mistero che non può in alcun modo venire affrontato. L’approccio da seguire è allora quello di pensare nell’intuizione, data la quasi immediatezza con cui lo si coglie, l’epistemologia nell’ontologia e l’ontologia nell’epistemologia, mettendole in comunicazione reciproca.

Bibliografia

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3. Kant, I. Eine Vorlesung Kants über Ethik Philosophia practica universalis, P. Menzer (ed.); Rolf Heise: Berlin, 1924. Raccoglie le lezioni di etica tenute da Kant nel 1775-81, alla vigilia della prima edizione della Critica della ragion pura (trad. it. a cura di A. Guerra, Lezioni di etica; Laterza: Roma-Bari, 2004).

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12. Florenskij, P.A. Simvolika videnij (La simbolica delle visioni). SČT, 3/1, pp. 422-433, già in Simvol, 1992, 28, 171-82, ed. it. SF, pp. 185-200.

13. Florenskij, P.A. Chozjajstvo (Lo strumentario), Prima pubblicazione postuma in Simvol, 1992, 28, 183-187, ed. it. SF, pp. 202-207. L’aggettivo composto formo-obrazujuščaja significa letteralmente “formativa, generatrice di forma”, reso nella traduzione italiana come “morfopoietica”.

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15. Florenskij, P.A. Mnimosti v geometrii. Rasširenie oblasti dvuchmernych obrazov geometrii. Opyt novogo istolkovanija mnimostej (I punti immaginari in geometria. Estensione del dominio delle immagini bidimensionali in geometria. Esperimento di una nuova interpretazione dell’immaginario), Pomor’e: Moskva, 1922; tr. it. parziale in S.F., pp. 278-289. Tr. it. completa Gli immaginari in geometria, a cura di A. Oppo e M. Spano; Mimesis: Milano-Udine, 2021, p. 62.

16. Florenskij, P.A. Maginot’ slova (Il valore magico della parola). In Id. U vodorazdelov mysli (Agli spartiacque del pensiero), a cura dell’igumeno Andronik Trubačëv, M.S. Trubačëva e P.V. Florenskij; Pravda: Moskva, 1990, vol. II, pp. 226-227, tr. it. in Il valore magico della parola, traduzione e a cura di G. Lingua; Medusa: Milano, 2001.

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19. Florenskij, P.A. Ikonostas. Bogoslovskie Trudy, 1972, 9, 82-148; tr. it. Iconostasi. Saggio sull’icona, a cura di G. Giuliano; Medusa: Milano, 2008, p. 19 (testo riveduto secondo l’originale russo).