La saggezza disincantata di Leon Battista Alberti

Gian Mario Anselmi

Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, Alma Mater Studiorum –
Università di Bologna, Accademico Effettivo

Abstract

The essay aims to investigate the two aspects with which Leon Battista Alberti introduces himself: on one side the great and rational architect and artist, the infallible and determinate theoretical of civil coexistence and family’s equilibrium as prerequisites of “good living”. On the other side, mainly in the latin works such as Momus and Intercenales, the disillusioned pessimist who captures ruthlessly (before Machiavelli and Erasmo) the human weaknesses, the Church and State corruption, the nonsensical logic of wars, the same distortion of the evangelical message combined with a strong crisis of the political action. To this bitter human condition Alberti, in the wake of Plinio, thus opposes the urge to “build”, to put an end to the disintegrations of the civil and religious society, to be protagonists of a real renewal of traditions through art and good governance of the essential nuclei of society both from the economic and family point of view.

Keywords

Economy, Reason, Ferocity, Crisis, Family.

© Gian Mario Anselmi, 2023 / Doi: 10.30682/annalesm2301d

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Al cuore del secondo libro de I libri della famiglia Lionardo Alberti, uno dei più originali interlocutori messi in campo da Leon Battista nella sua opera dialogica, esprime una lunga riflessione sulla legittimità senza riserve dell’accumulo di ricchezze, sulla natura di questo accumulo e sul suo senso di valenza civile e persino “pubblica”. Il testo è oltremodo interessante per vari motivi, mai a sufficienza messi in luce. Leggiamo perciò insieme una porzione del testo:

Adunque ora cominceremo ad accumulare ricchezze. […] Niuno essercizio, a chi hane l’animo magno e liberale, pare manco splendido che paiono quegli instituti essercizi per coadunare ricchezze. Se voi qui considererete alquanto e discorrerete, riducendo a memoria quali siano essercizi accomodati a fare roba, voi gli troverete tutti posti non in altro che in comperare e vendere, prestare e riscuotere. E io stimo che a voi, e’ quali, quanto giudico, pur non avete l’animo né piccolo né vile, que’ tutti essercizii suggetti solo al guadagno potranno parervi bassi e con poco lume di lode e autorità. Già poiché in verità el vendere non è se non cosa mercenaria, tu servi alla utilità del comperatore, paghiti della fatica tua, ricevi premio sopraponendo ad altri quello che manco era costato a te. In quel modo dunque vendi non la roba, ma la fatica tua; per la roba rimane a te commutato el danaio; per la fatica ricevi il soprapagato. El prestare sarebbe lodata liberalità, se tu non ne richiedessi premio, ma non sarebbe essercizio d’aricchirne. Né pare ad alcuni questi esserci zii, come gli chiameremo, pecuniarii mai stieno netti, sanza molte bugie, e stimano non poche volte in quegli intervenire patti spurchi e scritture non oneste. Però dicono al tutto questi come brutti e mercenarii sono a’ liberali ingegni molto da fuggire. Ma costoro, quali così giudicano di tutti gli essercizii pecuniarii, a mio parere errano. Se l’acquistare ricchezza non è glorioso come gli altri essercizii maggiori, non però sarà da spregiar colui el quale non sia di natura atto a ben travagliarsi in quelle molto magnifiche essercitazioni, se si trasmetterà in questo al quale essercizio conosce sé essere non inetto, e quale per tutti si confessa alle repubbliche essere molto e alle famiglie utilissimo. Sono atte le ricchezze ad acquistare amistà e lodo, servendo a chi ha bisogno. Puossi colle ricchezze conseguire fama e autorità adoperandole in cose amplissime e nobilissime con molta larghezza e magnificenza. E sono negli ultimi casi e bisogni alla patria le ricchezze de’ privati cittadini, come tutto el dì si truova, molto utilissime.1

Non è chi non colga l’eccezionale rilevanza di questa pagina che meriterebbe a pieno titolo di essere inserita in un manuale di storia economica: innanzitutto, e in piena rotta con il pensiero teologico ed etico cristiano e persino di parte di quello classico, l’accumulo di ricchezze basato sul lavoro, il profitto da investimento (addirittura con toni, non solo in questa pagina ma in tutta l’opera, che oggi chiameremmo elogiativi del “rischio d’impresa”), l’utilità pubblica del capitale da profitto sono elogiati senza riserva con una enfasi che non può che farci pensare a Max Weber e a una vera e propria “etica del denaro”. E il rifiuto del “prestare” ad usura non discende più in Alberti da ragioni moralistiche cristiane ma dalla necessità di porre l’accento piuttosto sul lavoro e gli “essercizii” come motori fondamentali della produzione della ricchezza dei singoli e delle comunità e degni di essere annoverati tra le attività più degne dell’uomo, da quelle liberali a quelle politiche a quelle militari. E proprio il riferimento a Weber ci fa capire perfettamente come sia indispensabile andare oltre le sue classiche affermazioni e ragionare sulle radici di un certo tipo di etica capitalistica ben prima della Riforma protestante. Con buona pace di chi continua a ritenere del tutto assente dalla riflessione teorica umanistica e rinascimentale il pensiero economico, quasi esso emergesse come dal nulla solo lungo la grande stagione settecentesca. Se infatti leggiamo l’opera di Alberti accanto a varie giornate del Decameron (ove spicca il primato laico dell’intelligenza applicata al buon arricchimento e al saper farsi da sé nelle fortune mondane), al De avaritia di Bracciolini, a certe affermazioni inequivoche di Salutati o di Giovanni Conversini da Ravenna sulla vita attiva e ad altre di Valla o di Matteo Palmieri o di molti cronisti, memorialisti, mercanti fiorentini (e non solo) con i loro ricordi e scritture troveremmo un terreno di straordinario interesse per capire da dove sia cominciato e come si sia dipanato in epoca moderna il percorso di legittimazione piena del lavoro, del profitto, della ricchezza. In questo senso I Libri della famiglia di Alberti sono testimonianza di eccezionale interesse: in particolare nella pagina esemplare che qui abbiamo richiamato emerge la piena consapevolezza del tempo-lavoro come valore di scambio, valore su cui si aggiunge un plusvalore, rispetto alla merce nel suo valore d’uso e al valore del lavoro impiegato a produrla, che crea appunto il profitto (il “soprapagato”). Abbiamo usato non casualmente la terminologia economica classica e marxiana: essa è perfettamente applicabile alle riflessioni albertiane ancor più forse della pur gloriosa e pertinente definizione di “tempo della Chiesa e tempo dei mercanti”. Alberti qui davvero senza troppi giri di parole trasforma definitivamente e laicamente il tempo in valore quantificabile, in denaro, in tempo economico e non escatologico. Con una dirompente possibilità di retrodatare, almeno per alcuni cenni embrionali, ad Alberti alcune ipotesi dell’economia classica di Adam Smith. Del resto i grandi illuministi ebbero non a caso ben presente l’Alberti da più punti di vista: non dimentichiamo infatti che in queste pagine Alberti individua il fulcro di ciò che è essenziale per l’accumulo di ricchezze soprattutto nel commercio (ed è ovvio, l’imprenditoria industriale era ancora ben lontana dal nascere!), commercio che è pienamente legittimato da Alberti nella sua importante funzione sociale, economica e persino di etica pubblica. In Alberti ciò non nasce solo, com’ è evidente, dalla necessità di esaltare con convinzione l’attività principale su cui la sua famiglia aveva saputo costruire la propria fortuna ma dalla piena consapevolezza dell’importanza di questa attività per le sorti delle famiglie come delle comunità in aperta polemica con ogni visione pauperistica di marca cristiana (Machiavelli avrà ben presente questo laico Alberti nel dipanare poi in chiave più politica-antropologica nel Principe e altrove alcune sue riflessioni radicali). E ancora: il commercio, nelle pagine albertiane, è una forma di lavoro che produce ricchezza e questo lavoro volto al profitto è essenziale per l’identità stessa dell’uomo come tale e per la sua storia. Se si pensa a come proprio la categoria di “commercio” assuma nel Settecento un ruolo fondamentale per l’analisi di molteplici livelli dello sviluppo delle civiltà, dall’economico al culturale al politico, appare chiara la rilevanza delle precocissime intuizioni albertiane: ad esempio il grande illuminista napoletano Antonio Genovesi (ben studiato a suo tempo per questi aspetti da Eluggero Pii) non a caso in vari testi mostra di avere molto presente sia Alberti sia l’insieme del pensiero umanistico cosicché i suoi Dialoghi, altri scritti e le Lezioni sul Commercio, nella grande novità di valenza europea del suo pensiero, si comprendono bene solo se si ha ben chiaro lo spessore delle sua ampie letture umanistiche e rinascimentali.2 È evidente che in Alberti le pur innovative riflessioni economiche (per le cui fonti poteva giovarsi solo di qualche spunto in Aristotele e Plinio), nelle condizioni storiche date, non diventano il centro di un sistema di pensiero (come accadrà invece in epoche successive) e si limitano alle geniali intuizioni precorritrici di cui parlavamo (è spontaneo pensare al percorso analogo che caratterizzerà più tardi Leonardo in campo scientifico e tecnologico). L’economia anche in questo così avanzato pensiero umanistico è parte di un’antropologia etica e politica più complessiva, di una filosofia morale che plasmerà, attraverso il nostro Umanesimo, la sostanza stessa dell’Europa moderna. Le riflessioni economiche albertiane si volgono perciò a una dimensione filosofica ed antropologica di ben più ampia e altra portata e anch’essa fortemente radicata in alcune linfe della tradizione umanistica fin dal Petrarca e dal mondo antico: ovvero la riflessione su quali argini l’uomo, nella fragilità connaturata alla sua stessa natura, nell’impasse del suo esistere, può disporre per difendersi nel mare del disordine sublunare governato dalla “fortuna” e nella tempesta delle sue stesse pulsioni primitive di prevaricazione, sopraffazione, soddisfacimento senza regole dei suoi istinti. Costruire, edificare, regolare con leggi gli stati improntando le norme al buon reggimento familiare, e appunto accumulare solide ricchezze sono tutti elementi dell’incessante lotta contro la Natura e la Fortuna avverse, contro la casualità irredimibile del vivere e del morire, contro le pulsioni distruttrici che provengono dall’interno dello stesso “cuore di tenebra” dell’uomo. Alberti fra i primi con le sue opere esibisce fino in fondo l’aporia della condizione umana e i drammatici passaggi che la connotano, spesso usando l’arma del sarcasmo e della demistificazione del potere e delle ipocrisie correnti: di qui l’alternarsi, accanto a testi che delineano l’arte costruttiva e positivamente laboriosa dell’uomo (I Libri della famiglia appunto, gli scritti sull’architettura e la pittura, gli esercizi matematici, il De Iciarchia), di testi corrosivi e lucidamente perfidi e disincantati nel descrivere l’inquietante “doppio” che agita l’uomo e gli abissi del male e della corruzione da cui è sempre pronto a farsi inghiottire di là da fedi, religioni, ideali, tutto calpestando (Intercenales e Momus soprattutto). Questo esibito ed insanabile contrasto che si accampa fin nel cuore del Settecento (che dire, fra l’altro, del Voltaire, graffiante e demolitore, dei racconti, delle facezie e dei libelli?) è della cifra appunto di ciò che una certa tradizione umanistica aveva per prima messo in campo (da Alberti a Erasmo a Machiavelli, come si dirà, e con Poggio, Valla, Galeotto Marzio, Codro, Pontano) e che poi aveva conosciuto esiti straordinari in tutto il Seicento europeo.3

Al fondo della questione sta, in buona sostanza, la scoperta dolente, già in parte di Petrarca e poi dell’Umanesimo italiano, di una sorta di “irriducibilità di senso” delle cose al loro fine ultimo: ecco allora, nei testi dei grandi autori, emergere il paradosso come interfaccia dell’alterità; la “maschera” (Momus) come doppio grottesco del volto sfuggente della verità (che in Petrarca, nel Secretum, era ancora solo “muta”, non “mascherata”); la “follia” come lacerazione tra quotidiano confine del vivere e “grande storia” ovvero “fortuna”. Non è un caso che la faceduto, ben esemplata sui testi di Plauto e Luciano, divenga poi per Pontano non solo e non tanto cifra del conversare (De sermone) del buon cortigiano ma misura stessa delle cose e di ogni forma di rapporto: e così si trasmigra infatti nel Cortegiano, nel Galateo, nella Civil conversazione e di lì in tutta la trattatistica propria della morale mondana europea di ancien régime.4

Non è chi non veda che proprio l’Alberti contradditorio e lacerato a suo tempo magistralmente offertoci in pagine ancora esemplari da Eugenio Garin si collochi pienamente in questa vicenda italiana ed europea: l’aporia non è nell’Alberti ma nelle cose che egli fa emergere, nel cuore irriducibile e doppio del reale, la cui lettura non può che dispiegarsi tra razionalismo e beffa cinica, senso della misura e tragicità della vita, desiderio di “governo” e impeto distruttore della natura e della fortuna, senso della giustizia e cupidigia irrefrenabile dei potenti, dei “primi”. Penso alla lettura che già Roberto Cardini diede a suo tempo di Alberti come interprete della ferocia della politica ma allo stesso pessimismo apologetico di matrice cristiana e patristica che vi individuò Rinaldo Rinaldi. E giustamente Carlo Varotti ha poi potuto parlare, per Alberti, di un umanesimo che in realtà coglie una condizione non redimibile dell’uomo. E la stessa “mescolanza”di plurime contaminazioni che nella variegata mappa delle scritture volgari del Quattrocento (compreso Alberti) Emilio Pasquini a suo tempo seppe delineare conferma sul piano linguistico-stilistico ciò che abbiamo appena enunciato sul terreno etico-filosofico delle scritture albertiane.5 Alberti, insomma, grazie a molti interpreti dei nostri giorni e oggi che meglio possiamo usufruire di edizioni e traduzioni ben fondate dei suoi testi, sembra sempre più assumere una fisionomia grande e decisiva nel canone di formazione della cultura moderna, proprio quando egli fa sinistramente balenare l’“inumano” dai suoi straordinari testi.6 Ed è ovviamente a partire da qui che il paragone con Machiavelli si impone con forza, benché tanti ne abbiano già da tempo sottolineato divergenze di presupposti e di esiti concettuali. Ma occorre subito, per altro, avanzare un punto di vista singolare che accomuna tanti dei nostri grandi “antichi”: essi sono spesso esuli o esiliati, più o meno volontari, più o meno perseguitati, in ogni caso per lo più sradicati, Dante come Petrarca, Alberti come Machiavelli. L’assillo e l’ossessione del dilemma “virtù/fortuna”, il senso tragico dell’esistere come agone con l’oggettivo corso del mondo e delle cose (e Leopardi, attentissimo lettore di questa tradizione, saprà come delinearlo in chiave negativa moderna) si radicano in dolenti vicende autobiografiche, a tutti ben note.

A partire da ciò vorrei suggerire qui un filo di ragionamento che ci consenta non tanto di abbozzare un sistema compiuto di interpretazione quanto un sentiero fra i testi di questa sorta di agostiniani senza grazia che sono Alberti e Machiavelli.7

Da Petrarca, attraverso Alberti e Machiavelli, fino a Guicciardini, Erasmo e altri, vi è come uno “slittamento” di senso fra forme e metafore spesso simili ma via via ripensate in base a progressivi riposizionamenti dei paletti concettuali di riferimento. Una cosa accomuna, in partenza, tutti però e già lo si accennava in precedenza: la consapevolezza (già ben definita da Dante nel Paradiso) ovvero l’assillo gigantesco che il mondo sublunare, in cui l’uomo agisce nel suo tragitto terreno, è perennemente scompaginato da forze superiori e da pressioni ctonie e inferine, è luogo del disordine (cristianamente, della caduta e del peccato) e del perenne mutarsi (l’idea cardine delle ovidiane metamorfosi) del tutto, cui l’uomo, per letteralmente sopravvivere ed esistere, deve opporre più o meno fragili argini, progetti, politiche, utopie (Ariosto rappresentò benissimo nella sua straordinaria leggerezza narrativa questo “nodo” ineludibile). Come tanti Ercoli al bivio di tanta iconografia quattro-cinquecentesca, gli uomini consapevoli (e a cui consapevolmente si rivolgono i nostri autori) sanno che le scelte, anche obbligate, sono drammatiche e i marosi propri del tempo sublunare rendono spesso indecifrabile il senso stesso di quelle nostre scelte. Occorre qui con forza introdurre un elemento fondamentale per la temperie culturale di cui si argomenta ed è la grande, decisiva importanza del paradigma interpretativo del Cosmo, dell’uomo e della Natura della Naturalis historia di Plinio. Il paradigma pliniano, mai a sufficienza studiato e delineato per il nostro Medioevo e per il Quattrocento, è in realtà fondamentale accanto a quello ovidiano delle Metamorfosi cui per vari aspetti “accumulativi” di saperi analogici va connesso. Ed è paradigma fondamentale per Alberti come poi lo sarà per Bracciolini, Leonardo, Machiavelli passando per le decisive tappe delle Castigationes pliniane di Ermolao Barbaro e per il volgarizzamento di Plinio ad opera del Landino ed edito a Venezia nel 1489. Tutto il secolo è insomma attraversato, come già il Medioevo, da un Plinio fondativo per molti aspetti: Plinio in effetti accentua ciò che nella tradizione aristotelica-tolemaica era già ben delineato. Ovvero che il mondo cosmico è matematizzabile ed armonico mentre quello sublunare dell’uomo è scompaginato, disordinato, imprevedibile, travolto da un incessante divenire e disfarsi/farsi del tutto come anche ben Ovidio poeticamente insegnava. E in effetti Plinio, in apertura del settimo libro della sua opera enciclopedica, delinea un’antropologia pessimistica sull’uomo nel Cosmo, uomo a cui è molto difficile poter uscire dalla sua dura e debole condizione nella natura sublunare. La via che Plinio sembra indicare ha forti analogie con il tema dell’“edificare” del nostro Umanesimo: l’uomo col suo operare positivo, con le sue opere di ingegno, con la intraprendenza pragmatica e conoscitiva che ben l’imperium di Roma aveva saputo diffondere nel mondo conquistato può arginare e delimitare la sua debolezza originaria. E non a caso nei libri 33-37 della Naturalis historia dedicati alla Mineralogia e alla storia dell’arte emerge l’identità possente dell’uomo artifex e artista capace di plasmare gli elementi naturali e di domarli, dall’alchimia all’arte. Ovvero è Plinio in tutta la sua opera (insieme ad Aristotele e Ovidio) a porgere chiavi fondamentali ad Alberti come a Leonardo per altro o a Machiavelli per lavorare concettualmente sulle aporie della realtà e dell’uomo nel Mondo. L’argine alla Natura e alla Fortuna imprevedibili in cui si dipana la storia umana non può che essere rappresentato da quei fondamenti decisivi della “vita attiva” che abbiamo qui delineato fin dall’inizio: Plinio ha insegnato a leggere queste lacerazioni e queste contraddizioni e i possibili rimedi ed Alberti, nella complessità delle sue opere fra loro così diverse e pur all’interno di un malcelato pessimismo antropologico, le ha riprese e rilanciate nella cultura umanistica. L’ansia stessa catalogatoria di Plinio, la “vertigine della lista”, come diremmo oggi con Eco, la curiositas che lo contraddistinguono sono appunto un campo di tensioni volto a dare picchetti certi al conoscere come essenziale requisito per “imbrigliare” un mondo altrimenti indomabile: è la stessa partitura ermeneutica e conoscitiva che porta Alberti ad esplorare tutti i campi dell’operare umano come operare del vero saggio-sapiente, dell’artifex accorto e prudente in controcanto con gli uomini avidi e violenti, facile prede alla fine della labilità effimera dell’esistenza (la partitura doppia appunto della produzione albertiana). Ed è filone pliniano che appunto torna, in termini analoghi, in un Leonardo e poi in moltissima produzione cinquecentesca di enciclopedismo erudito e antipedantesco maturato all’incubatoio della stagione umanistica (e fino al Tasso dei Dialoghi come del Mondo creato).8 Come a dire: nel nostro Umanesimo si delinea una pagina fondativa altissima della storia della filosofia morale che ormai occorrerebbe decidersi a riscrivere a fondo per capire le inquietanti radici della nostra modernità. È netta la percezione infatti, negli autori che abbiamo richiamato, che incombono sia la fortuna (ora avversa ora favorevole) sia il fato come destino ineluttabile: tali concetti classici vengono rielaborati in chiave cristiana con modalità diverse ma pur sempre nella consapevolezza che il “libero arbitrio” dell’uomo deve fortemente fare i conti con questi dati oggettivi e imperscrutabili che lo governano dall’esterno, Dio o mondo lo si voglia chiamare.

Fato e fortuna “travolgono” la piccolezza dell’uomo: di qui l’accumularsi, da Petrarca in poi, di serie metaforiche connesse a immagini del fiume in piena, delle acque mosse e tempestose da navigare, delle bufere rapinose dei mari, dell’essere sballottati dai flutti (e spesso con marcate cifre autobiografiche, come in Petrarca e Alberti), della nave più o meno vittima dei marosi oppure del porto come rifugio estremo (metafore di lunghissima vita e anzi rilanciate ulteriormente dai grandi poeti romantici, specie inglesi e tedeschi). Il problema allora, pur ovviamente con modalità diverse, che assilla in particolare Petrarca, Alberti e Machiavelli è in sostanza: cosa opporre a tutto ciò? Come mettere in gioco una “virtù” o una “prudenza” (Erasmo in modo cristianamente proprio parlerà, sull’esempio di Gesù, di “accomodatio”) che facciano argine a un potere simile? Ancora: come l’uomo con le sue civiltà e con le sue istituzioni può reggere a questo urto gigantesco?

Va subito detto, per inciso, che un tema squisitamente albertiano come l’operosità da contrapporre all’ozio va proprio inteso in simile contesto: l’affaticarsi intorno al “governo” giusto ed equilibrato delle cose, delle masserizie, degli affari è garanzia, è argine appunto da frapporre, pur secondo piccoli tasselli, all’imprevedibile procedere della fortuna o ai colpi del destino. Anche l’“edificare”, anche il lavoro dell’architetto e dell’urbanista rientrano in questo disegno: il lucido razionalismo dell’Alberti architetto è proprio da leggere in filigrana rispetto al magmatico e imprevedibile fondo oscuro da cui rischiamo di essere determinati. Così l’occhio dell’Alberti è, nei suoi molteplici testi e appunto solo in apparenza contradditori, ora volto al beffardo e rapinoso gioco della fortuna caotica che ci esibisce in tutta la nostra debolezza e vanagloria e insensata caccia al potere effimero (Momus, Intercenales) ora intento a cogliere le doti di chi sa però “edificare”, costruire, dare un senso dignitoso e misurato al proprio esistere. Non a caso sappiamo quanto, ancora sul declinare del Quattrocento, l’utopista Sannazaro fosse attento lettore del De re aedificatoria albertiano o quanto peso le suggestioni architettoniche di ascendenza sempre albertiana giocassero in un testo di forte valenza simbolica di renovatio come il Polifilo di Fabrizio Colonna. E questo, del positivo e concreto “edificare”, è tema carissimo anche a Flavio Biondo, i cui intrecci, anche lessicali e terminologici, con il coevo Alberti sono ancora tutti da studiare. Ma non v’è dubbio che le grandi opere storiografiche, antiquarie ed archeologiche del Biondo, così ansiosamente attente alla ricostruzione dell’antico come barriera rispetto alla fragilità del tempo, vadano lette in correlazione (e in sintonia di tempi e di comuni aspettative) con Plinio per un verso e per l’altro con le opere di Alberti nonché con le sue concrete progettazioni architettoniche e urbanistiche (da Rimini a Mantova al piano per la Roma di Eugenio IV).9

Ma questa prudente opera di edificazione e di alacrità saggia che ha la pazienza dell’architetto, del padre di famiglia o del ragno (nella fragilità e forza al tempo stesso della sua tela così come dalla celebre metafora del De Iciarchia) deve fare i conti con un’altra forza oscura che proviene dall’interno dell’uomo, dal suo stesso doppio: ovvero la componente istintiva e feroce che è propria della sua natura, la violenza irredimibile dei suoi istinti di potere e di possesso, manifesti nell’agone politico a tutti i livelli (anche laddove essi dovrebbero essere banditi: ricorrenti e caustici, come nel Pontifex, i riferimenti in più testi dell’Alberti alla corte papale e alla corruzione della Chiesa temporale).

L’animalità nell’uomo è impudica e dissennata per Alberti: egli che è anche, come Leonardo e tanti altri artisti, buon naturalista e buon estimatore del mondo degli animali (famosi i suoi elogi del cane, del cavallo o l’osservazione della vita dei pesci, degli insetti e così via) vede nell’uomo il manifestarsi di una ferocia senza necessità, di una violenza consapevole, ben diversa dall’istintualità perspicace del mondo ferino. Siamo anche agli albori di una implicita “fisiognomica” che crescerà nella cultura letteraria, medica, artistica rinascimentale fino al culmine tardocinquecentesco di Della Porta e atta a incrociare i tratti negativi o positivi dell’uomo e del linguaggio del suo volto e del suo corpo con le radici multiple della sua natura (con ricadute di straordinaria valenza nella ritrattistica ovviamente ma anche nella delineazione letteraria o storiografica dell’“eroe” come del vile e dell’inetto) e, intorno a questo groviglio di uomo e animalità, non a caso poi Machiavelli giocherà, in celebri sue pagine, riflessioni decisive per la filosofia moderna in un percorso che giungerà fino ad Alfieri e Foscolo.

Interfaccia della violenza della fortuna e del fato è quindi la violenza propria dell’uomo e dei suoi appetiti egoistici: interfaccia ben rappresentata dall’invidia, tarantola terribile che guasta e corrode i rapporti fra gli uomini, che tutto può far perdere e che rappresenta una sorta quasi di ossessione per Alberti così come, per certi versi, lo era già stato per Dante. La disperata e continua difesa dell’amicizia, ben oltre i toni già aristotelici e poi epicurei, stoici, ciceroniani, oraziani che pure fornivano sangue e linfa alle sue formulazioni, nasce in Alberti dalla necessità, anche per questo, di creare un “argine”, un possibile riparo, in questo caso rispetto alla violenza e all’egoismo insiti nell’invidia ovvero nel desiderio di prevaricazione sull’altro che tenta sempre l’uomo. Ma la crudeltà e la violenza dell’uomo sono, per Alberti, vistosamente segno della sua fragilità e della sua debolezza: la ferocia dell’uno contro l’altro non fa che esibire la nostra pochezza di fronte agli assalti della fortuna, alla fuga del tempo, alla morte. Ma proprio questo tragitto (ricerca invidiosa del piacere e della fama, assalti della fortuna, fuga del tempo, incombere della morte e dell’eternità) ci reca verso i Trionfi del Petrarca, anzi a tutto Petrarca si potrebbe dire, senza di cui né umanesimo né rinascimento, in questo loro dubbioso e lacerato interrogarsi di tanti protagonisti come Alberti, sarebbero comprensibili. La fragilità del tempo e la solitudine dell’uomo sono presenti fin dall’Africa, dove ad esempio, nel secondo libro, il lamento di Publio Scipione, calcato sulle Heroides ovidiane, sembra coniugarsi con la riflessione sui misteriosi disegni della Provvidenza e le inspiegabili scelte del destino che leggiamo nel sonetto 81 del Canzoniere.10

Così lo scatto d’orgoglio dell’Agostino/Petrarca che richiama nel primo Libro del Secretum Francesco con un “neminem miserum esse nisi qui velit” si riversa nel prologo ai Libri della famiglia con quel celebre “solo è senza virtù chi non la vuole”. Ovvero: è come se nei due autori (Alberti sarebbe incomprensibile senza Petrarca) si delineasse una sorta di partitura dialettica del conflitto fra i limiti oggettivi dell’uomo e la sua tensione morale a non esserne schiacciato attraverso una opzione forte di “virtù”. I “due” Petrarca magistralmente raffigurati nel Secretum si rispecchiano nei “due” Alberti del prologo ai Libri della famiglia, il prologo appunto che parla della piena rapinosa e rovinosa della Fortuna e di converso che elogia la virtù operosa della vita attiva. Ma spesso la virtù non basta: rimane solo il “rifugio”, il “porto di salvezza” che Petrarca evoca, rispetto ai terribili naufragi, nel De vita solitaria e in Familiares, V 5 o XV, 2 e 3, rifugio connotato dall’autentico otium del savio che conosce il valore del presente, la necessità della solitudine, la “sublime inutilità della poesia”, la decisiva risposta all’invidia tramite l’amicizia, il cui lessico deve prevalere su quello deflagrante del “nemico”.11 Sono temi costanti e continui in tutta la produzione albertiana, a partire dalla convinzione che l’uomo è sostanzialmente solo contro la Fortuna: esiti di cifra un po’ diversa da quelli che si troveranno poi nel più “politico” Machiavelli.

Così nelle Seniles di Petrarca torna sovente il tema dell’indipendenza spirituale del saggio come condizione della sua libertà. Nella VI, 2 al Boccaccio, infatti, si parla della tranquilla accettazione dei mali della vita come della forma più vera di libertà concessa agli uomini. Ci si fa innanzi in altre parole una ruvida morale senecana e agostiniana che, in Petrarca come in Alberti, fa i conti da un lato con la vita interiore di cui siamo consapevoli e dall’altro con l’oscuro spazio esteriore, del quale ignoriamo dimensioni e disegni, quel “non essere” che ci coabita. La stessa epoca storica che si sta vivendo appare come una persecuzione del destino (e i toni autobiografici di esuli sono rilevanti nei due autori): si è soltanto affidati alla capacità individuale e alla sorte, alla virtù e alla fortuna, soli nel mondo e tra appetiti famelici dei potenti e degli stati.

Per questo il testo davvero capitale per comprendere l’Alberti, e specie le Intercenales, e forse gran parte del nostro umanesimo etico e politico, è sicuramente il De remediis di Petrarca: tra Gaudio e Speranza che accompagnano la fortuna favorevole e Timore e Dolore che sono propri di quella avversa (le due parti dell’opera) chi deve sempre tenere la giusta rotta è la Ratio, la dote per eccellenza del saggio. La cultura e le humanae litterae ci soccorrono per arginare sia le insidie che le lusinghe della vita. Alberga nel De remediis una malinconica saggezza virile che prelude all’umanesimo e a quella tranquillitas animi che Alberti richiamerà nel Fortuna et Fatum, ad esempio.

Solo partendo da questo Petrarca è possibile allora comprendere Alberti che declinerà i toni petrarcheschi in modo ancora più disincantato e lacerato, spesso senza neppure quel conforto in una pietas cristiana che invece alberga sempre come sfondo in Petrarca. I temi restano quelli ma, come già si diceva, con progressivi slittamenti di senso, di orientamento, nei cruciali passaggi intertestuali fra i due autori.

Tutto ciò è posto pienamente sul tappeto da Alberti in un ventennio decisivo tra gli anni Trenta e soprattutto Quaranta del Quattrocento: dalle Intercenales “toscane” al Momus “romano”, nel decennio che intercorre tra i primi tre libri e il quarto della Famiglia. Tra il De remediis petrarchesco e il prologo ai Libri della famiglia (1440 circa) si inarca insomma un vertice del pensiero morale europeo, cui non possiamo non aggiungere, sempre dell’Alberti, poi molte Intercenales (come Fortuna et Fatum, Naufragus, Somnium, Lacus), il XVIII e XXV del Principe di Machiavelli con Discorsi II, 5 sull’eternità del mondo, i Ricordi di Guicciardini, l’Enchiridion e la Ratio verae theologiae di Erasmo.

In sostanza va definendosi, con epicentro in Alberti, una linea che nel radicalizzare certi assunti petrarcheschi che prima notavamo, si configura come un vero e proprio controcanto rispetto al cosiddetto umanesimo civile fiorentino.12 La Fortuna per Alberti può infatti travolgere tutto e il saggio può opporvisi stoicamente se non è troppo imbevuto di un classicismo di maniera e utopico: prima di Machiavelli Alberti insomma poneva già le fondamenta di un discorso critico sul classicismo umanistico e certo suo velleitarismo astratto, avviando un percorso che avrà ancora pieno vigore fin nella satira antipedantesca (per altro già presente nel Petrarca del De sui ipsius…) di tutto il Cinque e Seicento.13 Per Alberti (che sicuramente Guicciardini riprenderà per punti chiave della sua riflessione, cosa mai a sufficienza finora messa in luce) non si possono fornire agli uomini ricette universali: la vita è appunto accomodamento, argine, prudenza, rifiuto degli eccessi, architettura sapiente, rifugio in una giusta dissimulazione che sappia escludere l’ipocrisia. La religiosità è scabra ed essenziale, quasi nel “silenzio di Dio”. Gli antichi sono modelli di virtù pubbliche e di saggezza privata ma essi vanno imitati con misura, con la ratio del De remediis.

Alberti insiste sulla misura, sul rifiuto degli eccessi, sulla “tumultuarietà” del popolo o dei giovani, rischiosa per affrontare il fragile e precario equilibrio dell’uomo nel mondo. Di qui l’appello costante alla rigida formazione dei giovani, di cui proprio ferocia ed eccessi vanno imbrigliati (anche Erasmo, seppure con tonalità diverse, molto insisterà sulle istanze pedagogiche come ineludibili nel vivere civile). Di qui ancora, come poi sarà per Guicciardini, l’approdo di Alberti, davvero in esplicita collisione con il primo umanesimo fiorentino, verso una visione politica moderata, in cui solo i “pochi” e i “saggi”, depositari di sofisticate esperienze possono garantire alla navicella dello stato la giusta rotta (anche il principe, se saggio, suggerirà l’Alberti più tardo).

La posizione politica di Alberti sta tutta in questo pessimismo etico e antropologico che caratterizza il suo pensiero con la delineazione di una virtù scabra ed essenziale che ne scaturisce, quasi viatico per l’individuo in sé e “solo” più che per l’uomo come essere “sociale” o “politico”: la cura delle masserizie, la simbiosi di onore e virtù, l’uso accorto del tempo e del denaro senza che siano dilapidati, il riso sermocinale sono i viatici indispensabili per questa virtù che diviene “pubblica” e “politica” solo se sa fare i conti con la crescita della virtù individuale, dell’apprendistato rigoroso e laico del dotto attraverso il senso pieno dello studio come ragionevolezza equilibratrice (Theogenius, De Iciarchia, ma già il De Commodiis) in cui appunto la “sublime inutilità” della scrittura e delle lettere deve accompagnarsi con la parte “nobile” del fare (economico, architettonico, urbanistico, artistico, matematico).

Ciò che caratterizza infatti di grande originalità l’Alberti è questo suo continuo delimitare con picchetti critici la latitudine di potenzialità dello stesso saggio: se l’apprendistato dell’uomo con responsabilità si radica nelle humanae litterae, dei limiti di esse e di chi le pratica retoricamente e a vanvera occorre tener conto (con altra e ulteriore declinazione e slittamento conseguente questo punto tornerà centrale nella grande trattatistica rinascimentale sul comportamento e sul disciplinamento di matrice laica e cortigiana, dal Pontano al Castiglione, al Bembo, al Guazzo). Magistrale è in ciò la partitura del Momus appunto. Così come il sapere teorico deve sempre sapersi commisurare col fare, con la “masserizia”, altrettanto la vita della città deve correlarsi con quella della campagna. È un umanesimo, quello di Alberti, come si vede, del tutto particolare, poco retorico, poco incline a entusiasmi acritici, contiguo, per vari aspetti, forse a un certo Valla e a un certo Biondo e battipista sicuramente per il Machiavelli che vuole coniugare la lezione delle cose antiche con l’esperienza di quelle presenti. Anzi se disponiamo un ordito che leghi gli affreschi sul buon governo di Ambrogio Lorenzetti, le riflessioni petrarchesche prima richiamate (e specie alcune parti finali dei Trionfi) al Proemio alle Elegantiae del Valla, al Proemio al terzo libro della Famiglia (che precede per altro le Elegantae valliane!) e all’Intercenale Somnium di Alberti con il memorabile capitolo “filosofico” di Machiavelli De aeternitate mundi in Discorsi II,5 configuriamo un grande tema di filosofia della storia e di etica laica della missione degli stati e delle civiltà che, in questa sequenza intertestuale, non è probabilmente mai stato messo in luce. La straordinaria sequenza di testi qui ricordata ci dice infatti una cosa sostanziale e memorabile per gli esordi dell’età moderna: l’Impero e l’esemplarità di Roma vanno ripresi nella consapevolezza del complessivo evanescere del tutto nei tempi e della fragilità intrinseca di ogni impero o religione che non sappia abbinare al potere delle armi e dei bellatores con la loro vis di conquista quello decisivo, per sconfiggere la fuga del tempo, della funzione civilizzatrice del sapere, della parola, delle arti come primato dell’edificare e della politica come forza edificatrice essa stessa e ordinatrice di leggi, di buon governo e di solido compromesso fra governati e governanti.

Ed è appunto a Machiavelli che ora occorre guardare: il “luciferino” Segretario non evita certo gli “estremi” in cui l’uomo si colloca e che, con tonalità diverse ma comuni nella radice, Petrarca e Alberti avevano indicato. Come Alberti, anche Machiavelli si misura con tutto ciò nelle stesse opere letterarie, dove il percorso della ratio tra istinti ferini, astuzia, apprendistato laico di una saggezza politica al crinale tra scenari della respublica fiorentina e vizi privati del suo ceto dirigente appare di straordinaria efficacia: ne sono testimonianza i Decennali, la Mandragola, l’Asino. Ma la virtù di Machiavelli è di un conio particolare: egli interpreta certo Roma, la romanitas e la tradizione classica in modo forte e attivo, rileggendo in chiave tutta politica potenti suggestioni già operanti in Petrarca, nei Rerum memorandarum libri come nel De remediis o in famosi testi del Canzoniere, da Machiavelli citati in punti decisivi di suoi testi capitali.14 Ma questa rimeditazione tutta attiva e disincantata del valore degli antichi ( si pensi alla famosa pagina finale dell’Arte della guerra) passa, in parte come per Alberti, attraverso il ridimensionamento dell’utopismo bruniano e con la ripresa piuttosto del Valla (del famoso proemio alle Elegantiae) e del Biondo (fonte decisiva per le Istorie fiorentine di Machiavelli): insomma una rilettura, debitrice questa sì anche verso il grande Petrarca storico del De viris illustribus, che punta l’accento sull’etica, come prima si diceva, del primato della civiltà romana, sulla forza delle sue istituzioni e delle sue leggi, sulla magnanimità esemplare dei suoi protagonisti mettendo in ombra un’idea di Impero come puro dominio militare sulle genti. E quindi leggere oggi Machiavelli vuol dire leggerlo attraverso una filigrana in realtà mai praticata a fondo dalla critica machiavelliana e che mette a fuoco il decisivo ruolo, per il suo apprendistato, accanto ai classici antichi o a Dante, di Petrarca e Alberti e Valla in primo luogo.

Anzi Machiavelli ci appare come una sorta di precipitato finale di questa particolare trafila e ancora una volta, come già Alberti rispetto a Petrarca con uno smottamento, un ulteriore slittamento di senso e di prospettiva sia rispetto a Petrarca che ad Alberti.

Il testo capitale è appunto il XXV del Principe, che andrebbe letto in controcanto sia con il prologo ai Libri della famiglia (lessico e argomentazioni sono davvero contigui) sia con l’intera opera dell’Alberti. Machiavelli infatti non mette in discussione la fragilità dell’uomo e dell’uomo politico in particolare di fronte al turbine rovinoso della Fortuna: usa la stessa potente metafora del fiume in piena cara a Petrarca e ad Alberti, come si è visto. Parla cioè di quella “inondazione”, che anzi nel celebre capitolo II,5, già prima richiamato, dei Discorsi è indicata come una delle tre cause (accanto a “peste” e “fame” ma delle tre la più importante) atte a devastare e “purgare” gli uomini, a distruggerne le civiltà e i popoli, cancellandone la memoria storica in un mondo che nella sua sostanza perenne dura eterno.15 E questo grandioso capitolo che rivitalizza i topoi della fragilità della storia umana e delle sue civiltà e religioni (compreso il cristianesimo, ovviamente, per lo “scandaloso” Machiavelli) rispetto all’eternità del mondo sembra davvero figlio di una ricca tradizione aristotelica ma anche dei Trionfi petrarcheschi e specie delle loro memorabili terzine finali come di tutto quell’ordito di opere e testi memorabili che avevamo richiamato in precedenza. Machiavelli usa cioè nel Principe una metafora tratta da un concetto che in lui stesso presuppone forti connessioni filosofiche e potenti richiami a testi fondativi della cultura occidentale classica e volgare: ma poi interviene lo scarto geniale e rivoluzionario. Cosa opporre alla forza devastante di questa Fortuna che, nella successiva celebre serie metaforica, è poi dipinta come “giovane donna” impetuosa e indomabile? Machiavelli vi oppone la forza e la ferocia “poco rispettive” del giovane. Proprio quell’eccesso di ferocia e quella mancanza di prudenza che Alberti rifiutava nel nome dell’equilibrio, della moderazione, del lungo apprendistato dei giovani rispetto ai seniores, in sostanza unica possibilità di argine alla Fortuna, in Machiavelli divengono invece essi il baluardo in grado di arginare le “inondazioni” della Fortuna, di imbrigliarne e domarne gli imperscrutabili disegni di donna giovane e sensuale. Il giovane eroe (nel VII del Principe era stato già delineato il ritratto esemplare in tal senso, e alla fine di una serie non casuale di capitoli, del Duca Valentino) incarna la virtù necessaria, commista di astuzia, ferocia, sapere politico e militare pronto al magnanimo tributo per la causa laica e romana della repubblica: secondo un progetto di morale pubblica e politica, del tutto non cristiana e “romana” appunto, che Berlin ha descritto con grande lucidità in un saggio famoso su Machiavelli.16 La rivoluzione antropologica che Machiavelli, nel Principe (ma anche nelle opere teatrali), mette in campo, assumendo la ferocia del giovane “poco rispettivo” al centro della virtù vincitrice sui marosi del mondo, produce uno scarto netto rispetto a Petrarca e Alberti, proprio mentre fa propria tutta la pregnanza di quel lessico metaforico a forte valenza etica e filosofica che da essi era stato avviato.

La “tumultuarietà” del resto aveva, com’è noto, fatto grande, per Machiavelli, Roma: i conflitti sociali per lui erano stati infatti un forte motore di innovazione per l’antica repubblica. E ciò Machiavelli sosteneva contro la vulgata magnatizia che aborriva dai conflitti civili nel nome della conservazione dell’esistente. Così, sul piano antropologico e individuale, la “tumultuarietà” dei giovani è l’antidoto unico per arginare l’altrettanto impetuoso corso della fortuna. Tumulto, ferocia, astuzia: un lessico a consolidata connotazione negativa che Machiavelli volge in positivo, come forte motore di trasformazione. E del resto già nel XVIII del Principe Machiavelli aveva colto nell’intreccio indissolubile tra “ferinità” e ratio lo snodo vincente del principe, legittimando appieno come “virtù” quella componente animale propria dell’uomo e che appare decisiva, se ben conosciuta e condotta, per la sua affermazione nel mondo delle vane simulazioni e dei teatri ipocriti dei potenti. Con un’audacia senza alcun precedente, in due capitoli cruciali dell’opera, Machiavelli sconvolge così i picchetti della virtus classica, annettendovi e il campo dell’istintualità animale e quello della giovinezza, come alleati indispensabili per l’agire politico.

Ciò che in Petrarca e in Alberti appariva segno di instabilità e pericolo (in sintonia con l’intera tradizione classica e patristica) diviene per Machiavelli possibile punto di forza. Appare con ciò evidente quanto in lui prevalga così il forte sentire l’uomo come essere politico e sociale (radicalizza le note posizioni aristoteliche e averroistiche) e come le virtù e i vizi privati non possano essere giudicati che alla luce della respublica, senza separatezze care a certi filoni di pensiero stoici ed epicurei. Di qui la passione repubblicana e innovatrice propria di Machiavelli che infiammerà tanto i giovani degli Orti Oricellari, ben altra rispetto al pessimistico moderatismo politico di Alberti.

Questa importantissima trafila concettuale ed etica che abbiamo seguito, nel suo dispiegarsi non senza aporie e rilevanti slittamenti, tra Petrarca, Alberti e Machiavelli resta un punto decisivo della riflessione umanistica e rinascimentale, vero fulcro cui far riferimento per la storia del pensiero moderno. Da qui partono, per differenziarsi o confrontarsi, i maggiori pensatori del Cinque e Seicento. L’esito ribelle di Machiavelli è talora accantonato. Ad esempio, con percorsi diversissimi, Erasmo e Guicciardini sembrano tornare ad Alberti per certi esiti politici del loro pensiero: l’accomodatio di Erasmo è debitrice, più che verso Origene o Epitteto, verso questa linea del nostro umanesimo e si radica fino in Petrarca.17 Mentre la “prudenza” del laico Guicciardini, esplicitamente in polemico controcanto con l’amico Machiavelli, evoca ancora piuttosto il lucido e beffardo disincanto del Momus o delle Intercenales con gli inevitabili approdi politici moderati e ottimatizi che ne conseguono.

Ma è alla Francia che occorre soprattutto guardare per cogliere riprese fondamentali di questa riflessione. Originalissimo è, in questo senso, il percorso di Montaigne, grande erede dell’umanesimo italiano in generale eppure attento in particolare alle “provocazioni” di Alberti e di Machiavelli: va notato come specie nel secondo libro dei suoi Essais si trovi una visione dinamica e quasi “machiavelliana” della psiche e dei suoi contrasti. La “mescolanza/agone” infatti tra desideri, passioni e loro realizzazione può avere per Montaigne segno positivo e contribuire a forgiare uno scontro meno aspro, e con più consapevolezza del ruolo della Natura, tra ratio e Fortuna. Un ulteriore slittamento si produce così in Montaigne: la metamorfosi e il mutare delle cose, la volubilità degli eventi, la conseguente illusorietà delle certezze filosofiche assolute devono comportare una più attenta riflessione sulla natura e sulla dignità delle conoscenze che ci derivano dalla sfera stessa dei sensi, dall’animalità positiva che vi convive (pagine di Alberti e XVIII del Principe qui davvero sono più che contigui). Nell’Apologia di Raimondo Sebond, dodicesimo lungo capitolo del secondo libro degli Essais, questi temi trovano un dispiegamento ampio e originalissimo: l’uomo, pur gravato dalla sua precarietà e fragilità, è in grado di fronteggiare il mondo (e Montaigne vive, e ne da testimonianza drammatica, nella Francia duramente segnata e lacerata dalle guerre di religione e dalle violenze dissennate che vi ebbero luogo) se ne penetra, senza arroganza dogmatica o intellettualistica, la natura orientandovisi come gli animali sanno fare con la loro metis, direbbero oggi gli studiosi più brillanti del pensiero antico (e ancora va rammentato Machiavelli, in questo caso del finale dell’Asino col paradossale elogio dell’animalità positiva tenuto dal porco rispetto alle feroci ipocrisie degli uomini).

Questa pacata saggezza di Montaigne, capace di declinare il dibattito del nostro umanesimo sul fronte di natura e naturalità (e aprendo così un filone di lunga durata fino nel cuore della stagione illuministica) è bilanciata dalla percezione drammatica di Du Bellay sull’impotenza della storia, così come testimoniata dalle antichità e dalla rovine di Roma, nel suo celebre canzoniere: solo la consapevolezza della fragilità e della “caduta”, della vanitas vanitatum è segno di virtù che il poeta cantore fa propria.18 L’eco del Petrarca dei Trionfi, dell’Alberti del Momus e delle Intercenales o del Machiavelli di Discorsi, II,5 diviene meditazione sul senso delle civiltà e della loro esemplarità. L’inquietudine di un petrarchista singolare come Du Bellay fa breccia e lo spartito drammatico e pensoso che da Petrarca ad Alberti a Machiavelli si era aperto sugli “estremi” in cui l’uomo vive ed agisce si impenna infine nelle pagine tormentate e sofferte di Pascal. La modernità con le sue complesse contraddizioni è alle porte e le pagine di Alberti con cui avevamo avviato le nostre riflessioni ne erano state un viatico decisivo.


1 Vedi L.B. Alberti, I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1969, 170-171; Id., Autobiografia e altre opere latine, a cura di L. Chines e A. Severi, Milano, BUR, 2012.

2 A. Genovesi, Dialoghi e altri scritti intorno alle Lezioni di Commercio, a cura di E. Pii, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 2008. E. Pii, “Cultura del Settecento e modernità”, in Mappe della letteratura europea e mediterranea, a cura di G.M. Anselmi, II, Milano, Bruno Mondadori, 2000, 121-161.

3 G.M. Anselmi (a cura di), Mappe della letteratura europea e mediterranea, 3 voll., Milano, Bruno Mondadori, 2000-2001. I Racconti, facezie, libelli di Voltaire sono ora consultabili nell’edizione a cura di G. Iotti con prefazione di F. Orlando, Torino, Einaudi, 2004.

4 Su questi temi sono da leggere i molti studi ed edizioni di testi prodotti negli anni da Amedeo Quondam.

5 Cfr. E. Garin, Rinascite e rivoluzioni, Bari, Laterza, 1975; R. Cardini, Mosaici. Il “nemico” dell’Alberti, Roma, Bulzoni, 1990; E. Pasquini, Le botteghe della poesia, Bologna, Il Mulino, 1991; R. Rinaldi, “Melancholia christiana”. Studi sulle fonti di L.B. Alberti, Firenze, Olschki, 2002; C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel rinascimento, Milano, Bruno Mondadori, 1998, specie da p. 291. E si vedano anche: P. Marolda, Crisi e conflitto in L.B. Alberti, Roma, Bonacci, 1988; M. Paoli, Leon Battista Alberti 1404-1472, Besançon, Les Editions de l’Imprimeur, 2004 nonché i molti saggi di Alberto Tenenti. Ed inoltre: F. Rico, Il sogno dell’umanesimo, Torino, Einaudi, 1998. Spunti interessanti (vedi specialmente per i nostri assunti le relazioni di Danzi, Miglio e Rinaldi) in: L. Chiavoni, G. Ferlisi e M.V. Grassi (a cura di), L.B. Alberti e il Quattrocento, Firenze, Olschki, 2001. Di M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Torino, Einaudi, 2019.

6 Oltre all’edizione delle Intercenales già citata abbiamo consultato: L.B. Alberti, Opere volgari, 2 voll., a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, 1966; Id., I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1969; Id., Momo o del principe, a cura di R. Consolo, Genova, Costa e Nolan, 1986; Id., Apologhi ed elogi, a cura di R. Contarino, Genova, Costa e Nolan, 1984; Id., De commodis litterarum atque incommodis, a cura di L. Goggi Carotti, Firenze, Olschki, 1976. Nonché le varie Edizioni delle opere latine curate da R. Cardini nel tempo.

7 È il metodo intertestuale cui ci invita E. Raimondi, Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale, Milano, Bruno Mondadori, 2004.

8 Vedi quanto argomentavo in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana Einaudi, Storia e geografia. II.1, Torino, 1988, 521-559 e in La saggezza della letteratura, Milano, Bruno Mondadori, 1998. Per Plinio si vedano gli studi fondamentali di G. Conte e U. Eco, La vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009.

9 Su Flavio Biondo e su altro a lungo ho parlato in Le frontiere degli umanisti, Bologna, Clueb, 1988, cui rinvio per la bibliografia. Su Alberti, Biondo ed altri umanisti: R. Rinaldi, Libri in maschera, Roma, Bulzoni, 2007. E naturalmente occorre ricorrere ai molti volumi di Atti dei convegni albertiani tenutisi per la ricorrenza centenaria e curati da R. Cardini e M. Regoliosi. In particolare, per quel che qui si argomenta, cfr. R. Cardini e M. Regoliosi (a cura di), Alberti e la cultura del Quattrocento, 2 tomi, Firenze, Edizioni Polistampa, 2007.

10 Per un primo affondo critico nell’universo di questo Petrarca, qui e nelle pagine successive: R. Amaturo, Petrarca, Bari, Laterza, 1971; F. Petrarca, Lettere dell’inquietudine, a cura di L. Chines, Roma, Carocci, 2004; L. Chines, Francesco Petrarca, Bologna, Pàtron, 2016; M.C. Bertolani, Petrarca e la visione dell’eterno, Bologna, Il Mulino, 2005; M. Feo (a cura di), Petrarca nel tempo, Comitato nazionale del VII centenario della nascita di F. Petrarca, Pontedera, Bondecchi e Vivaldi, 2003, tutti studi cui rinviamo per il punto bibliografico e critico su Petrarca e le più aggiornate edizioni dei suoi testi. Per la fisiognomica e Della Porta si vedano i molti studi e saggi di L. Rodler, fra cui ultimo, Leggere il corpo, Bologna, Archetipolibri, 2009. Ed inoltre: P. Zanker, La maschera di Socrate, Torino, Einaudi, 2009.

11 Sul linguaggio concernente il nemico e le ostilità interne interessanti spunti in J.J. Marchand e J.C. Zancarini (a cura di), Storiografia repubblicana fiorentina (1494-1570), in particolare il saggio di J.L. Fournel, Firenze, Franco Cesati Editore, 2003; sul tema del ruolo della poesia: M. Feo, “L’inutilità della poesia”, Quaderni della Fondazione del Monte di Bologna e di Ravenna 9, Bologna (2004), 33-45.

12 Cfr. il già citato saggio di R. Cardini.

13 Cfr. P. Cherchi, Polimatia di riuso, Roma, Bulzoni, 1998 e Id., Ministorie di microgeneri, Ravenna, Longo, 2003.

14 Cfr. G.M. Anselmi, “Petrarca e l’etica laica della saggezza rinascimentale”, Italianistica XXXIII, 2 (2004), 125-131. Di G.M. Anselmi e di C. Varotti vedi l’edizione delle Grandi opere politiche di Machiavelli per Bollati Boringhieri, Torino, 1992-93. E per quanto qui si argomenta in generale e per Machiavelli: G.M. Anselmi, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, Roma, Carocci, 2008; Id., Leggere Machiavelli, Bologna, Pàtron, 2014. L. Chines, E. Menetti, A. Severi (a cura di), Humana feritas. Studi «con» Gian Mario Anselmi, Bologna, Pàtron, 2017.

15 Importante l’ampio studio che G. Sasso vi ha dedicato in Machiavelli, gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli, Ricciardi, I, 1987, da p. 167.

16 I. Berlin, Controcorrente, Milano, Adelphi, 2000, da p. 39. Su questi temi cfr. gli studi di U. Dotti, in particolare, La città dell’uomo, Roma, Editori Riuniti, 1992 e Machiavelli rivoluzionario, Roma, Carocci, 2003. Sempre importante poi la lettura dei saggi che Pocock e Skinner, pur da differenti punti di vista, hanno dedicato alla ricezione del pensiero machiavelliano nella cultura europea ed americana.

17 Vedi ora l’edizione degli Scritti religiosi e morali di Erasmo a cura di C. Asso con l’importante introduzione di A. Prosperi, Torino, Einaudi, 2004. Di Erasmo vanno letti, nell’ottica che qui abbiamo cercato di abbozzare, anche i Colloquia e gli Adagia nonché ovviamente l’Encomium Moriae.

18 Le antichità di Roma di J. Du Bellay sono ora ben edite e ben tradotte in italiano per cura di P. Tucci, Roma, Carocci, 2005. La linea di un classicismo mosso e ricco di inquietudini e di suggestioni, ben oltre le apparenze di scuola, si manifesta in significativi filoni del nostro rinascimento e del nostro manierismo, particolarmente di quello emiliano con esiti straordinari alla corte francese ovvero nel cuore della grande cultura europea, come da tanto hanno del resto mostrato gli studi di Marc Fumaroli. Qualche ulteriore pista notevole si può cogliere in: C. Monbeig Goguel (a cura di), Francesco Salviati (1510-1563) o la Bella Maniera, Milano, Electa, 1998; D. Cordellier (a cura di), Primaticcio. Un bolognese alla corte di Francia, Milano, 5 Continents Editions, 2005; S. Beguin e F. Piccinini (a cura di), Nicolò dell’Abate. Storie dipinte nella pittura del Cinquecento tra Modena e Fontainbleau, Cinisello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2005; S. Frommel e G. Wolf (a cura di), Il mecenatismo di Caterina de’ Medici, Marsilio, Venezia, 2008.