Tessere di enciclopedismo albertiano

Loredana Chines

Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, Alma Mater Studiorum –
Università di Bologna, Accademica Effettiva

Abstract

The essay investigates the classical sources of Leon Battista Alberti’s works from a philological and critical point of view. Starting from Alberti’s own words on the value of classical heritage, his habits as a reader, through the re-functionalization of authors like Terenzio, Plauto – with a special mention of the relation between Alberti and Latin comic production ‒ and Cicero, what this article points out is the interdisciplinarity of his interests and subjects. Differently from other humanists, Alberti did not collect texts for pure bibliophilism but as a moment of creation of new knowledge, valuable for his intrinsic impact on res and verba.

Keywords

Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Intercenales, Latin comedians, Cicero.

© Loredana Chines, 2023 / Doi: 10.30682/annalesm2301e

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Alberti è un lettore onnivoro, non bibliofilo, non bibliomane e non filologo nel senso degli umanisti esclusivi che scrivono preferibilmente in latino e che guardano con sospetto ad autori di età non aurea. Legge e utilizza tutta la gamma degli autori e delle discipline, dagli arcaici ai medievali, nelle diverse lingue, con grande centralità del volgare per trasformare le parole dei volumina in nuovi disegni, in nuova letteratura, in nuovi saperi, in nuove costruzioni.

Nel De equo animante, l’opera dedicata prevalentemente all’addestramento del cavallo, in cui Alberti raccoglie tessere della letteratura tecnica, veterinaria o medica, si legge:

Ea de re quos potui auctores nobiles et ignobiles […] multa industria collegi, atque ex singulis quidquid elegans dignumque adfuit, in nostris libellis transtuli. Hi fuere auctores qui quidem in manus nostras pervenere: Graeci […], Latini […], Gallici […] praeterea et Etrusci complurimi, ignobiles verum utiles atque experti.1

E le tessere di volta in volta riutilizzate nelle opere non appartengono necessariamente allo stesso genere del testo che va allestendo. L’umanista si avvicina agli autori in prospettiva enciclopedica, ovvero utilizzando a seconda dei casi ciò che serve al suo fine.

In Alberti la visione enciclopedica non è solo a parte subiecti, cioè nell’ottica dell’umanista che forma la propria enkyklos paideia, ma anche a parte obiecti; lo sguardo dell’intellettuale indaga di continuo gli auctores, considerati sempre summae di sapere e di insegnamenti morali, in relazione alla loro utilità nell’opera che va redigendo.

Ecco allora che nel De re aedificatoria, l’opera che nella sua stessa struttura è l’archetipo della rappresentazione organica e relazionale di ogni sapere, gli storici (da Cesare del De bello gallico a Svetonio, a Curzio Rufo, agli Scriptores Historiae Augustae) diventano fonti di informazione sui materiali utilizzati per costruzioni militari, fortificazioni o macchine da guerra.

Il metodo compositivo di fondo si ispira, per Alberti, a una sententia terenziana ‒ sul valore ermeneutico dei comici latini torneremo più avanti ‒ che diventa chiave interpretativa delle opere dell’ Alberti scrittore e architetto, che scriva su una pagina o realizzi una struttura monumentale. Il verso 41 del prologo dell’Eunuchus di Terenzio «Nullum est iam dictum quod non dictum sit prius», «impossibile dire qualche cosa che già non sia stata detta» (Terenzio, Eunuchus, Prologo, v. 41),2 diventa, con una sensibilità che potremmo quasi definire post-moderna, il principio teorico lucidamente esposto nel III libro dei Profugiorum ab aerumna libri nil dictum quin prius dictum (ma compare anche nel proemio del Momus).3 Come nei frammenti variegati di un pavimento musivo in cui si compongono disegni nuovi con frammenti ricavati da altri contesti, così accade nella composizione di un’opera (letteraria o architettonica) che può essere nuova solo nel gioco combinatorio del disegno, non negli elementi che la costituiscono:

E quinci nacque come e’ dicono: Nihil dictum quin prius dictum. E veggonsi queste cose litterarie usurpate da tanti, e in tanti loro scritti adoperate e disseminate, che oggi a chi voglia ragionarne resta altro nulla che solo el raccogliere e assortirle e poi accoppiarle insieme con qualche varietà dagli altri e adattezza dell’opera sua, quasi come suo instituto sia imitare in questo chi altrove fece el pavimento.4

Ampio e variegato per cronologia e generi è lo scenario della tradizione letteraria e delle discipline da cui Alberti trae le “tessere” per creare sempre nuovi “mosaici”, inediti disegni, come ha mostrato nei suoi numerosi studi Roberto Cardini, e come hanno messo in luce i tanti contributi, atti di convegno, edizioni critiche e commentate di testi albertiani soprattutto dal 2005 a oggi (ricordo, per tutti, il celebre catalogo della mostra che si tenne in Laurenziana in occasione del centenario della nascita nel 2004, Leon Battista Alberti, la biblioteca di un umanista).5

In ogni testo albertiano, in ogni campo di applicazione della creatività dell’umanista, si può cogliere il gioco di lettura e riscrittura, di smontaggio e originale rimontaggio degli auctores, sempre all’insegna dell’inscindibilità fra teoria e prassi, fra mani e cervello.

Dal ritratto ideale di sé fornito nell’Autobiografia (la cui edizione è stata curata da chi scrive, per BUR)6 emerge non a caso il profilo di un intellettuale dall’inesausta curiosità verso tutti i mestieri umani, come se per l’umanista l’intelligenza non avesse confini di applicazione: «Tentava di carpire a fabbri, architetti, costruttori di navi, persino a calzolai e sarti se mai custodissero qualcosa di raro e di recondito, come di peculiare, nella loro arte»7; il suo rigore di ingegnere e geometra non è mai disgiunto da una creazione della fantasia, come quando la forma delle navi romane sommerse, recuperate al suo cospetto dal fondo del lago di Nemi, richiama analogicamente ai suoi occhi la struttura anatomica dei pesci.8

D’altra parte, nello studiolo dell’Alberti i libri hanno pari dignità degli strumenti di misurazione matematica, i verba debbono sempre calarsi nell’azione, farsi res, come si evince da un celebre passo del De re aedificatoria (V 18):

Hoc non praetermittam. Bibliothecis ornamento in primis erunt libri et plurimi et rarissimi, praesertim ex docta illa vetustate collecti. Ornamento etiam erunt mathematica instrumenta cum caetera tum <iis> similia, quae fecisse Possidonium ferunt, in quibus septem planetae propriis motibus movebantur; quale etiam illud Aristarchi, qui in tabula ferrea orbis descriptionem et provincias habuisse praedicant artificio eleganti. Et Tyberius quidem recte imagines veterum poetarum bibliothecis dicavit.

Un punto da non sottacersi è che il principale ornamento delle biblioteche è costituito dai libri, che devon essere in gran numero, assai rari, e scelti dando preferenza ai più famosi dotti dell’antichità. Del pari saranno di ornamento strumenti matematici; ad esempio, simili a quello che – secondo la tradizione – fu costruito da Posidonio, in cui i sette pianeti percorrevano le loro orbite; o simili a quello di Aristarco, del quale si narra che sopra una tavola di ferro avrebbe tracciato un disegno del mondo diviso in province, opera ingegnosa e squisita. E ben a ragione Tiberio provvide le biblioteche dei ritratti degli antichi poeti.9

Date queste premesse, non stupisce che la mente enciclopedica e versatile dell’Alberti ‒ attenta all’inscindibilità tra conoscenza ed esperienza ‒ non esiti ad assumere atteggiamenti irriverenti e dissacratori verso il mito della «religione delle lettere» – anche in obbedienza a un lusus letterario altre volte capovolto. Non sfugga, per esempio, l’ironia ben percepibile già in certi passaggi del giovanile De commodis litterarum atque incommodis, in cui il letterato è descritto a consumare il fiore della gioventù tra le carte e le «pecore morte» che sono i libri (De commodis III 29): «inter chartas et mortuas pecudes (ut sic libros noncupem)».10

Nel nome parlante di Libripeta, poi, dell’intercenale Somnium, il cercatore forsennato di antichi codici, l’Aberti stigmatizza il tipo di umanista che accumula libri, da cui non sa trarre la linfa della vita.

Fa riflettere, d’altra parte, che solo cinque volumi si siano salvati della «biblioteca materiale» di Alberti (la definizione è di Roberto Cardini)11 di una tanto più numerosa «biblioteca reale» che possiamo desumere dalle citazioni o allusioni agli autori presenti nella sua produzione (si tratta di tre codici ciceroniani, un manoscritto degli Elementi di Euclide, e un codice che contiene l’opera sulla quadratura del cerchio di Raimondo Lullo). E non stupisce che sui codici rimasti le poche annotazioni autografe non siano di carattere filologico o erudito, ma rivelino piuttosto altri interessi, come quello per l’astrologia, per la geometria o per la propria privata esperienza. Torneremo in seguito sulla centralità di Cicerone nella biblioteca albertiana.

Alberti ‒ come si è detto ‒ è un umanista e lettore non bibliofilo, non bibliomane, e sceglie di proiettare questo volto pragmatico e incline alla facezia e all’arguzia dei sales nei tratti di un suo personaggio, Lepidus, maschera che nell’intercenale Somnium dialoga col prototipo caricaturale dell’umanista smanioso collezionista di libri che non legge, Libripeta. E, d’altra parte, con quest’ansia di far agire i propri testi nella realtà con immediatezza si giustifica la peculiare fisionomia redazionale ed ecdotica delle opere albertiane che circolano non riviste e non limate quasi scappate dalle mani dell’autore (tratto peculiare della filologia albertiana è l’archetipo in movimento). Alberti interviene a integrare e correggere molto poco sugli esemplari delle proprie opere approntate dai copisti.

Nell’estetica albertiana, nella sua riflessione così attenta alle luci e le ombre che si avvicendano sul palcoscenico della vita, la maschera comica desunta dalle opere di Plauto e di Terenzio, nasconde sguardi assorti sui giochi di simulazione e dissimulazione, sulla varietas delle indoli e delle vicende umane, che avvicinano molto l’esperienza dell’Alberti a quella di Machiavelli (riflessioni importanti emergono in questo senso dagli studi di Gian Mario Anselmi)12 o, per giocare in casa, delle opere di un umanista come Antonio Urceo Codro. Non a caso nel Momus (che per sottotitolo esplicativo reca De principe) si fa strada proprio un lessico tecnico teatrale, come rivelano le formule «sumpta persona», «desumpta persona»13, per cui a giusta ragione si è visto nell’Alberti il fondatore di quel pensiero umoristico moderno che passando per Leopardi arriva a Pirandello.14

E non di meno nella scrittura delle Intercenales la narrazione di gusto lucianeo (di un Luciano molto probabilmente non letto nell’originale greco, come mostrano gli studi di Mariantonietta Acocella,15 ma mediato dalle pressoché coeve traduzioni latine di Guarino, Aurispa, Lapo da Castiglionchio e Bracciolini) tende a trasformare la parola in gesto teatrale, supportata dalla lettura dei comici latini collocati proprio in cima al canone della biblioteca albertiana nel I libro del Theogenius:

Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso
di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte
ragionando; ché se forse mi dilettano e’ iocosi e festivi, tutti e’
comici, Plauto, Terrenzio, e gli altri ridicoli, Apulegio, Luciano,
Marziale e simili facetissimi eccitano in me quanto io voglio
riso. Se a me piace intendere cose utilissime a satisfare alle
domestiche necessità, a servarsi sanza molestia, molti dotti,
quanto io gli richieggio, mi raccontano della agricoltura, e
della educazione de’ figliuoli, e del costumare e reggere la
famiglia, e della ragion delle amicizie, e della amministrazione
della republica, cose ottime e approvatissime.16

Dietro queste parole si cela una celebre epistola metrica di Petrarca, la I 6, che Alberti riprende rovesciando il canone a favore dei comici e sarà questo testo (accanto all’ipotesto petrarchesco) a correre alla memoria del Machiavelli della lettera al Vettori.

Molti gli spunti e i motivi dei comici latini (per non parlare delle riprese lessicali e delle soluzioni formali) che si possono reperire nelle Intercenali; si considerino soltanto due esempi, entrambi tratti da tessere della Mostellaria plautina, che appaiono di particolare effetto proprio per lo scarto che si crea con il modello nel nuovo mosaico albertiano: il naufrago, che nell’incipit dell’omonima intercenale afferma che non intende più affidare le proprie sorti alle perfidie di Nettuno,17 ricalca le parole della Mostellaria plautina (vv. 431-37):

Nettuno ti debbo un monte di grazie per avermi lasciato tornare vivo a casa. Ma se d’ora innanzi verrai a sapere ch’io ho toccato il mare con la punta di un piede, ti do libertà di farmi il trattamento che per poco non mi hai fatto.18

Questa battuta si piega, nel testo albertiano, a una nuova vertigine di senso di chi si sente in balia della forza incessante e ineludibile del fluxus esistenziale.

Il secondo esempio è nell’intercenale Somnium, “Sogno”, (che ha come ipotesto il Menippo lucianeo): nella battuta di Libripeta che, nel paese dei sogni, ritrova una parte del suo cervello (§ 23: «mi sono imbattuto in una parte non piccola del mio cervello», e aggiunge: «quella che mi aveva spillato una vecchia che ho amato»)19 riverbera con eco divertita il Plauto della Mostellaria (Atto V, scena seconda v. 1110), nel passo in cui il vecchio Teopropide, gabbato e depredato dei suoi beni, dice: «cerebrum quoque omne e capite emunxti meo» «mi hai risucchiato tutta la materia grigia». E, come ci hanno rivelato la scoperta dell’intercenale Sominum nel codice di Pistoia a opera di Eugenio Garin20 e poi gli studi di Cesare Segre,21 sarà questa invenzione albertiana a propria volta ipotesto per l’invenzione ariostesca di Furioso XXXIV, 70-78, il viaggio di Astolfo sulla luna.

Ma verrebbe da dire che il comico in Alberti si fa cosmico, è lo sguardo che interpreta il mondo, la fallacia umbratile dell’esistenza. Per tale ragione i comici (Plauto e Terenzio in primis), ma anche Apuleio, rilanciato da Boccaccio, hanno una funzione ermeneutica più profonda e strutturante, non si limitano a fornire lessico e stile, ma quello stile e quel lessico forgiano la visione prospettica dell’estetica albertiana, come accade nell’ironia dissacrante del Momus in cui la parodia degli dèi attinge di continuo ai libri IV-VI della Metamorfosi apuleiana.

E si aggiunga che la filologia d’autore, nei non numerosi interventi di mano dell’Alberti, rivela questa spinta verso il lessico comico e teatrale (si prenda ad esempio la varia lectio che introduce a margine nel libro III del Momus “theatrum” al posto di “circus” nel codice conservato a Parigi).22

Quello che di Alberti continua ad affascinare il lettore moderno è proprio la presenza di un continuo movimento a onde tra luci e ombre, canto e controcanto, consapevolezza del limite e anelito all’azione. E in tal senso, a proposito dell’infirmitas inesorabile dell’uomo, non poteva che essere Lucrezio riscoperto nel secolo albertiano da Poggio, a fornire tessere parlanti. Si legga questo passo del II libro del Theogenius sul volto arcigno della natura matrigna, che ha un sapore lucreziano e, ancora una volta, “preleopardiano”:

Nacque l’uomo fra tanto numero d’animanti, quanto vediamo,
solo per effundere lacrime, poiché subito uscito in vita a nulla
prima se adatta che a piangere, sì come che instrutto dalla
natura presentisca le miserie a quali venne in vita, o come gli
dolga vedere che agli altri tutti animali sia dato dalla natura
vario e utile vestire, lana, setole, spine, piuma, penne, squame,
cuorio e lapidoso scorzo, e persino agli albori stieno sue veste
duplicate l’una sopra all’altra contro el freddo e non disutile a
diffendersi dal caldo, l’uomo solo stia languido giacendo nudo
e in cosa niuna non disutile e grave a sé stessi.23

Ed è ancora Lucrezio a suggerire ad Alberti, accanto al tema della infirmitas dell’uomo esposto alla violenza della natura, le riflessioni sulla passione amorosa nel II dei libri della fa­miglia.

Ma di Lucrezio, come di tantissimi altri autori letti e citati da Alberti, non rimane alcun codice. E vorrei ora tornare a riflettere su quella presenza di Cicerone in ben tre codici su cinque rimasti della biblioteca albertiana.

Non sorprende, in realtà, questa prevalenza di opere ciceroniane. In particolare, il Brutus ci resta in un codice della biblioteca Marciana,24 in cui le annotazioni di Alberti non hanno nulla di filologico e di esegetico, ma hanno quasi il carattere della scrittura avventizia, ovvero occasionale, che sfrutta gli spazi di carta bianca del proprio libro. Alberti ci lascia qui una ricetta per combattere i vermi nei bambini.

Eppure, proprio nel Brutus di Cicerone Alberti poteva trovare quel paragone sullo sviluppo dell’eloquenza romana e delle arti della scultura e della pittura, e quelle riflessioni, riprese in seguito da Quintiliano, che assumono a criterio di giudizio il ritmo e l’imitazione della natura. Cicerone, ripreso da Quintiliano, insiste sui concetti di simmetria, di euritmia, di decor, che scandiscono i principi architettonici e retorici di ogni linguaggio, di ogni sapere, di ogni disciplina. Così il gesto dello scrittore è simile a quello dell’artista che abbozza e via via definisce, come Alberti, e prima di lui Petrarca, poteva evincere anche dalla grande enciclopedia della Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Già Petrarca annotava nel suo codice della Naturalis historia la funzione del pennicillus, il pennello introdotto da Apollodoro nell’arte della pittura, vicino alla funzione del calamus dello scrittore.25

In Cicerone Alberti riconosce poi la caratteristica dell’autore perdissimilis, ovvero molto differente nei propri toni e nei propri registri, quasi in contraddizione con se stesso, in un gioco di maschere difformi che Alberti dovette sentire affine alla propria sensibilità camaleontica (si pensi solo alla diversità di prospettive tra le Tusculanae disputationes e il De officiis, nel complesso rapporto tra otium e negotium).

Alla vertigine inquieta che nasce dal senso dell’umana precarietà Alberti reagisce sempre con le creazioni dell’ingegno, col fare e rifare del pensiero e delle mani, come racconta in questo splendido passo del III libro dei Profugiorum ab aerumna libri:

Cosa niuna tanto mi disdice da mia vessazione d’animo, né tanto mi contiene in quiete e tranquillità di mente, quanto occupare e’ miei pensieri in qualche degna faccenda e adoperarmi in qualche ardua e rara pervestigazione. Soglio darmi a imparare a mente qualche poema o qualche ottima prosa; soglio darmi a commentare qualche essornazione, ad amplificare qualche argumentazione; e soglio, massime la notte, quando e’ miei stimoli d’animo mi tengono sollecito e desto, per distormi da mie acerbe cure e triste sollicitudini, soglio fra me investigare e construere in mente qualche inaudita macchina da muovere e portare, da fermare e statuire cose grandissime e inestimabili. E qualche volta m’avvenne che non solo me acquetai in mie agitazioni d’animo, ma e ancora giunsi cose rare e degnissime di memoria. E talora, mancandomi simili investigazioni, composi a mente e coedificai qualche compositissimo edificio, e disposivi più ordini e numeri di colonne con vari capitelli e base inusitate, e collega’vi conveniente e nuova grazia di cornici e tavolati. E con simili conscrizioni occupai me stesso sino che ’l sonno occupò me.26

L’immagine di artista dall’attività multiforme, del cameleonte Alberti, fu consegnata alla storia da Cristoforo Landino nel suo Comento [] sopra la Commedia di Dante Alighieri poeta fiorentino, pubblicato a Firenze esattamente quattro decenni dopo la stesura della Vita e a distanza di nove anni dalla morte dell’umanista genovese:

Ma dove lascio Baptista Alberti, o in che generazione di docti lo ripongo? Dirai tra’ physici. Certo affermo lui esser nato solo per investigare e secreti della natura. Ma quale spetie di matematica gli fu incognita? Lui geometra. Lui arithmetico. Lui astrologo. Lui musico et nella prospectiva meraviglioso più che huomo di molti secoli. Le quali tutte doctrine quanto in lui risplendessino manifesto lo dimostrano nove libri De Architectura da lui divinissimamente scripti, e quali sono referti d’ogni doctrina, et illustrati in somma eloquentia. Scripse De pictura. Scripse De scultura, el qual libro è intitolato Statua. Né solamente scripse, ma di mano propria fece, et restano nelle mani nostre commendatissime opere di pennello, di scalpello, di bulino, et di gecto da llui facte.27

Poliziano nella premessa all’editio princeps del De re aedificatoria (pubblicata a Firenze nel 1485) scriveva: «Nullae quippe hunc hominem latuerunt quamlibet remotae litterae, quamlibet reconditae disciplinae […] cum tamen interim ita examussim teneret omnia, ut vix pauci singula». A sottolineare, come affermerà poi Cecil Grayson, che: «Tutta quella scienza, sia letteraria che scientifica e tecnica, è in lui coerente e interdipendente, e fondamento di una unica visione del mondo, dell’uomo e della natura».28 Profondo, d’altra parte, è il legame tra queste riflessioni e ciò che anima il Poliziano nel Panepistemon, in cui ogni parola abita il pensiero mostrando alla modernità il reciproco alimentarsi di filologia e filosofia.


1 L.B. Alberti, Il cavallo vivo [De equo animante], seconda edizione riveduta e ristrutturata, testo latino a fronte, traduzione, introduzione e note di A. Videtta, con una presentazione di Ch.B. Schmitt, Napoli, Ce.S.M.E.T. 1991, 92-94.

2 Publio Terenzio Afro, Commedie, a cura di O. Bianco, Torino, UTET, 1996, 423.

3 L.B. Alberti, “Proemium”, 3-4, in Id., Momo, Testo critico e Nota al testo di P. d’Alessandro e F. Furlan, Introduzione e Nota bibliografica di F. Furlan, Traduzione del testo latino, note e Postfazione di M. Martelli, Volume a cura di F. Furlan, Milano, Luni Editirce, 2007, 402-403.

4 L.B. Alberti, “Profugiorum ab ærumna libri III”, II, in Id., Opere volgari, II: Rime e trattati morali, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, 1966, 161.

5 Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista, a cura di R. Cardini, con la collaborazione di L. Bertolini, M. Regoliosi, catalogo della mostra (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 8 ottobre 2005-7 gennaio 2006), Firenze, Mandragora, 2005.

6 L.B. Alberti, Autobiografia e altre opere latine, a cura di L. Chines e A. Severi, Milano, BUR, 2012.

7 Ivi, par. 29, traduzione nostra.

8 L’evento doveva esser narrato in un perduto libello albertiano dal titolo Navis che, assieme ad altri tre, avrebbe dovuto costituire un’appendice al De re aedificatoria; a dirlo lo stesso Alberti (cfr. L.B. Alberti, L’Architettura [De re aedificatoria], testo latino e traduzione a cura di G. Orlandi, introduzione e note di P. Portoghesi, II, Milano, Il Polifilo, 1966, 15-17, 389.

9 Ivi, 437.

10 L.B. Alberti, Opere latine, a cura di R. Cardini, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010, 28.

11 Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista, cit., 18.

12 A titolo di esempio si guardi almeno G.M. Anselmi, “Impeto della fortuna e virtù degli uomini tra Alberti e Machiavelli”, in Alberti e la cultura del Quattrocento, Atti del convegno internazionale del Comitato nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti (Edizione Nazionale delle opere di Leon Battista Alberti), a cura di R. Cardini e M. Regoliosi, Tomo I, Firenze, Polistampa, 2007, 827-842.

13 L.B. Alberti, Momo, cit., 404, 422.

14 R. Cardini, “Alberti o della nascita dell’umorismo moderno”, Schede umanistiche n.s., 1 (1993), 31-85; Id., “Paralipomeni all’Alberti umorista”, Moderni e Antichi 1 (2003), 73-86.

15 M. Acocella, “Appunti sulla presenza di Luciano nelle Intercenales”, in Alberti e la tradizione: per lo smontaggio dei mosaici albertiani, Atti del convegno internazionale del Comitato nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti, a cura di R. Cardini e M. Regoliosi, Tomo I, Firenze, Polistampa 2007, 81-139, in particolare p. 87.

16 L.B. Alberti, “Theogenius”, in Id., Opere volgari, II. Rime e trattati morali, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, 1966, 74.

17 L.B. Alberti, Intercenales, a cura di F. Bacchelli e L. D’Ascia, Bologna, Pendragon 2003, 572.

18 Plauto, Le commedie, a cura di G. Augello, 2, Torino, UTET, 1982, 277-278.

19 Alberti, Intercenales, cit., 235.

20 E. Garin, “Venticinque intercenali inedite e sconosciute di Leon Battista Alberti”, Belfagor 19 (1964), 377-396.

21 C. Segre, Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, 85-95, 97-109; Id., Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi 1990, 103-114, 115-119.

22 Paris, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 6702, c. 105v, L.B. Alberti, Momus, I.III. Cfr. Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista, cit., 207.

23 Alberti, “Theogenius”, cit., 89-90.

24 Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. XI 67 (3859), c. IIIr.

25 Paris, Biliothèque Nationale de France, Lat. 6082, f.255v, Plinio, Nat. Hist. XXXV 62.

26 L.B. Alberti, “Profugiorum ab Aerumna Libri III”, in Id., Opere volgari, II. Rime e trattati morali, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, 1966, 181-182.

27 C. Landino, Scritti critici e teorici, I, edizione, introduzione e commento a cura di R. Cardini, Roma, Bulzoni, 1974, 117.

28 C. Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, a cura di P. Claut, Firenze, Olschki, 1998 (Ingenium; 1), 433, pubblicato per la prima volta in Leon Battista Alberti, Catalogo della mostra (Mantova, 10 settembre-11 dicembre 1994), a cura di J. Rykwert, A. Engel, Milano, Olivetti-Electa, 1994, 37.