Una breve storia dei concetti di matematica e fisica
Lucio Russo
Professore di Meccanica statistica, Calcolo delle Probabilità e Storico della Scienza
Contributo presentato da Pierluigi Contucci
Abstract
It is shown that there is no clear boundary between mathematics and physics, and a brief history of the concepts of mathematics and physics is outlined. Not only the scientists of antiquity, but also Copernicus and Galileo referred to all the exact sciences by the term mathematics and used the word physics for the philosophy of nature. In Newton’s time, the unity of the exact sciences broke down, and from the combination of part of mathematics with the philosophy of nature modern physics was born. The article then describes how mathematical physics, which began as part of physics, was pushed back into mathematics by the birth of theoretical physics. Finally, the epistemological status of the current branches of the exact sciences is discussed.
Keywords
History of exact sciences, Mathematics, Physics, Mathematical physics, Theoretical physics.
© Lucio Russo, 2024 / Doi: 10.30682/annalesps2402a
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1. Cosa sono la matematica e la fisica?
La matematica e la fisica sono spesso presentate come discipline di diversa natura: la matematica si svilupperebbe deducendo teoremi indipendenti dall’esperienza, mentre la fisica sarebbe una scienza sperimentale. Ad esempio il teorema di Pitagora, in quanto dimostrabile senza ricorrere a misure empiriche, sarebbe un teorema matematico, mentre il principio di Archimede di idrostatica o la legge di Snell della rifrazione, avendo un fondamento sperimentale, sarebbero tipici risultati della fisica.
L’affermazione che il quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo ha la stessa area dei due quadrati costruiti sui cateti era però già nota agli scribi paleobabilonesi, che ignoravano i procedimenti dimostrativi. Alla loro epoca quello che per noi è il “teorema” di Pitagora aveva quindi solo un fondamento empirico. Archimede aveva invece dimostrato come teorema l’affermazione oggi nota come “principio di Archimede”, deducendola dai propri postulati di idrostatica; era quindi un risultato matematico ed è diventato un principio fisico solo cancellandone la dimostrazione. Analogamente nel X secolo lo scienziato persiano Ibn Sahl sapeva che la legge della rifrazione era una conseguenza del principio del minimo cammino ottico1 (era quindi per lui un teorema), mentre successivamente è divenuta una legge fisica e quando si è recuperata la capacità di dedurla da un principio di minimo è ridiventata un risultato matematico.
La distinzione tra risultati matematici e fisici non è quindi affatto ovvia e per capire la natura della differenza può essere utile una breve storia dei due concetti, che non sono rimasti affatto stabili nel tempo.
2. I termini fisica e matematica nella Grecia classica
I termini fisica e matematica sono entrambi greci. Dal verbo φύω (genero, cresco) deriva il sostantivo φύσις (reso in latino con natura), che indica tutto ciò che vive, cresce e, per estensione, diviene, e da questo l’aggettivo φυσικός, cioè naturale. Questi termini appaiono già sistematicamente nelle opere dei filosofi del primo periodo ellenico, molti dei quali scrissero un poema Περὶ φύσεως, ossia Sulla natura e furono perciò detti φυσιολόγοι o φυσικοί, termini che possiamo traslitterare rispettivamente con fisiologi e fisici ma che valgono semplicemente studiosi della natura. Aristotele, le cui opere hanno influenzato profondamente la terminologia medievale e moderna, parla esplicitamente di scienza fisica (φυσικὴ ἐπιστήμη)2 e scrisse un’opera su questo argomento il cui titolo latinizzato, Physica, è direttamente all’origine del termine attuale. Aristotele usava tuttavia questo termine per indicare la filosofia della natura, che differiva profondamente dalla moderna fisica sia nell’oggetto (che includeva non solo piante e animali, ma anche il “primo motore”) sia, soprattutto, nel metodo.
Il termine “matematica” deriva dal verbo μανθάνω (apprendo, imparo), il sostantivo μάθημα (oggetto di apprendimento, argomento di studio) e il relativo aggettivo μαθηματικός, il cui neutro plurale τὰ μαθηματικὰ (tutto ciò che viene studiato) ha dato origine al termine attuale; nella scuola pitagorica i matematici (contrapposti agli acusmatici, ossia uditori) erano gli adepti messi a parte delle conoscenze più profonde. Il termine matematica nel senso di una particolare scienza non appare ancora nelle opere di Platone (che parla invece spesso di geometria e di altre discipline poi incluse nella matematica), ma è usato sistematicamente da Aristotele e nella letteratura successiva.
A differenza dei nomi di quasi tutte le altre discipline, l’etimologia dei termini matematica e fisica, si riferisce a concetti generalissimi e non fornisce alcuna informazione sul loro contenuto: una chiara indicazione del fatto che fisica e matematica sono caratterizzate dalla scelta non di un particolare oggetto di studio, ma di un particolare metodo.
Cosa distingueva per Aristotele la matematica dalla fisica? La differenza tra il fisico e il matematico è per lui nel punto di vista. Chi, ad esempio, studia la proprietà di una curva al fine di realizzare uno strumento sarebbe, almeno in parte, un fisico, mentre chi usa un corpo materiale solo come modello della forma, che lo interessa in sé, sarebbe un matematico. Secondo Aristotele l’ottica e l’astronomia sono le più fisiche tra le scienze matematiche e sono da lui contrapposte alla geometria.3 Nel complesso le idee di Aristotele sulla natura della fisica appaiono abbastanza vicine a quelle moderne, certamente molto più vicine di quanto non siano tra loro la “fisica” aristotelica e la nostra.
3. La scienza esatta ellenistica
Nel periodo ellenistico il termine fisica continuò a indicare la parte della filosofia che si occupava della natura,4 mentre il termine matematica fu usato per un vasto insieme di discipline, tra le quali erano geometria, aritmetica, astronomia, ottica, meccanica, idrostatica, geografia matematica e teoria musicale.
Tutte le scienze matematiche erano accomunate dallo stesso metodo. Erano teorie sviluppate deducendo teoremi, con il metodo dimostrativo, da assunzioni iniziali enunciate esplicitamente, dette αἰτήματα, cioè postulati, o anche ipotesi (ὑπόθεσις, un termine greco che aveva un significato diverso e lontano da quello della parola moderna che ne abbiamo derivato).5 Ad esempio le teorie sviluppate nei trattati di Archimede Sui galleggianti e Sull’equilibrio delle figure piane e nell’Ottica di Euclide sono basate su postulati, rispettivamente di idrostatica, statica e ottica, proprio come l’opera più famosa di Euclide, gli Elementi, è basata su postulati di geometria. L’altro elemento essenziale dell’antico metodo matematico consiste nel legame tra le teorie e la realtà osservabile. Ad esempio, le opere di statica e di ottica hanno uno stretto rapporto con attività concrete, quali l’uso della bilancia e di strumenti ottici come la diottra o l’astrolabio, ed esattamente lo stesso rapporto esiste tra la geometria euclidea e la pratica del disegno con riga e compasso. Il rapporto tra teoria e pratica era sintetizzato dall’antico precetto che scopo delle teorie è quello di salvare i fenomeni (φαινόμενα σῴζειν): una teoria valida doveva cioè permettere di dedurre dai propri principi (o postulati) ciò che si osserva. L’eliocentrismo di Aristarco di Samo, ad esempio, permetteva di dedurre le retrogradazioni planetarie osservate dai semplici moti circolari uniformi ipotizzati per la Terra e i pianeti.
Se però è possibile dedurre le osservazioni dai principi della teoria, non è possibile la deduzione inversa; i principi non sono cioè individuabili univocamente dalle osservazioni. Questa impossibilità, che era già chiara all’inizio del periodo ellenistico, essendo documentato in Epicuro,6 non permette di affermare la verità dei principi delle teorie scientifiche. Una teoria è valida se è coerente e permette di salvare molti fenomeni, ma ciò non esclude che possa essere sostituita da una teoria migliore, in grado di salvare una fenomenologia più ampia.
Il passo più interessante oggi disponibile sull’antico metodo scientifico è probabilmente il seguente, che attraverso una lunga catena di testimonianze è approdato nel commento ad Aristotele scritto da Simplicio nel VI secolo:
Alessandro [di Afrodisia] cita un passo dall’epitome di Gemino dei Meteorologica di Posidonio. Gemino, ispirandosi alle opinioni di Aristotele, dice: “È proprio dell’indagine fisica considerare ciò che riguarda la sostanza del cielo e degli astri, la loro potenza e qualità, la loro generazione e corruzione […]. L’astronomia invece non si occupa di tutto ciò […]. In molti casi astronomi e fisici si occupano degli stessi argomenti, ad esempio della grandezza del Sole o della sfericità della Terra ma non seguono la stessa via. L’uno infatti [il fisico] dedurrà ogni cosa dalla sostanza (οὐσία) o dalla potenza (δύναμις) o da ciò che è meglio che sia o dalla generazione e dalla trasformazione, l’altro invece [l’astronomo] dalle opportune figure o dalle grandezze o dalla misura del moto e del tempo corrispondente. Il fisico in molti casi coglierà la causa individuando la potenza produttrice, mentre l’astronomo, dovendo basarsi su ciò che è esteriore, non sarà un giusto osservatore della causa […]. A volte egli [l’astronomo] attraverso un’ipotesi (ὑπόθεσις) trova il modo di salvare le apparenze (φαινόμενα σῴζειν). Ad esempio perché il sole, la luna e i pianeti appaiono muoversi irregolarmente? Se supponiamo che le loro orbite circolari siano eccentriche o che gli astri si muovano su un epiciclo, l’irregolarità che appare sarà salvata e bisognerà investigare in quanti modi diversi si potranno rappresentare le apparenze (φαινόμενα)”.7
Per Posidonio (compendiato da Gemino) il fisico è colui che, usando categorie filosofiche, può conoscere la sostanza della realtà naturale. Il termine a lui esplicitamente contrapposto è astronomo, ma avrebbe potuto essere altrettanto bene matematico.8 Subito prima del passo riportato la fisica era stata infatti contrapposta alla matematica e all’astronomia.9 Una caratteristica essenziale di queste scienze (che agli occhi di Posidonio è un loro grave limite) è l’impossibilità di garantire la verità assoluta dei loro principi, che non sono deducibili dalle osservazioni.
L’esempio astronomico riportato da Posidonio, la possibilità cioè di ottenere gli stessi moti osservabili con un eccentrico o con un epiciclo, allude a un teorema di Apollonio di Perga riportato da Tolomeo nell’Almagesto:10 se un punto B si muove di moto circolare uniforme attorno a un punto A e un terzo punto C si muove a sua volta di moto circolare uniforme attorno a B (percorrendo ciò che viene detto un epiciclo), allora se i due moti hanno la stessa velocità angolare il moto risultante può essere ancora circolare uniforme, ma con un centro diverso da A. Lo stesso moto può quindi essere descritto supponendo che C si muova su un’orbita circolare eccentrica rispetto ad A oppure su un epiciclo.
4. Tarda Antichità e Medioevo
Come abbiamo visto nel caso di Posidonio, dopo la decadenza della scienza11 il fatto che i matematici potessero usare teorie diverse, basate su assunzioni iniziali differenti, per spiegare gli stessi fenomeni, fu considerata una prova della loro inferiorità rispetto ai fisici (ossia ai filosofi della natura). Già Sesto Empirico, intorno al 200 d.C., nella sua opera Contro i matematici (Πρὸς μαθηματικοὺς), aveva cercato di gettare discredito sul metodo dimostrativo usando come uno dei principali argomenti l’incapacità dei matematici di stabilire con certezza la verità delle proprie premesse.
Nel medioevo il metodo dei matematici ellenistici non è dimenticato, ma la loro incapacità di raggiungere la verità assoluta continua a sancire la loro inferiorità rispetto a filosofi della natura, e teologi. Tommaso d’Aquino, nella Summa theologica, scrive:
Ci sono due modi diversi di render conto di una cosa. Il primo consiste nello stabilire con una dimostrazione sufficiente l’esattezza di un principio da cui questa cosa deriva; così, in fisica, si dà una ragione sufficiente a provare l’uniformità dei moti del cielo. Un secondo modo di render ragione di una cosa consiste non nel dimostrarne il principio con una prova sufficiente, ma nel far vedere come gli effetti si accordino a un principio precedentemente posto; così, in astronomia si rende conto degli eccentrici e degli epicicli per il fatto che, per mezzo di quest’ipotesi, si possono salvare le apparenze sensibili relative ai moti celesti; ma non è, questo, un motivo sufficientemente probante, perché questi moti apparenti si potrebbero salvare per mezzo di un’altra ipotesi.12
La fonte è qui chiaramente il passo che abbiamo citato riportato da Simplicio (o la sua fonte), del quale Tommaso riporta la stessa contrapposizione tra fisica e astronomia e lo stesso esempio degli eccentrici e degli epicicli. La critica al metodo degli astronomi è divenuta però in Tommaso più severa. Tommaso ritiene di poter raggiungere la verità fondando la filosofia della natura sulla metafisica e sulla teologia, che in particolare gli forniscono gli argomenti da cui crede di poter trarre la certezza dell’uniformità dei moti celesti.
5. Il Rinascimento scientifico
La terminologia degli scienziati del Rinascimento segue da vicino il modello greco. Per matematica, in particolare, si continua a intendere la scienza esatta nel suo insieme. Quando, ad esempio, Copernico, nella lettera dedicatoria del De revolutionibus orbium coelestium, afferma orgogliosamente che mathemata mathematicis scribuntur (la matematica si scrive per i matematici), non ha alcun dubbio sul fatto che la sua teoria sul sistema solare faccia parte della matematica.
Anche il termine fisica fino al Seicento inoltrato era usato in un senso vicino a quello antico, essendo adoperato soprattutto in trattati di filosofia naturale, nei tanti commenti all’opera omonima di Aristotele e in scritti medico-naturalistici (un ricordo di questo significato è presente nel termine inglese physician per medico). I cultori della scienza esatta, invece, quando non si dicevano filosofi, preferivano dirsi matematici. Galileo non aveva dubbi sul fatto che la sua “nuova scienza” sul moto dei gravi appartenesse a quella stessa matematica che era stata coltivata da Euclide, Archimede e Apollonio.13
Ai tempi di Galileo la scienza esatta conservava l’unità presente nei modelli greci, ma chi ricordava l’antico metodo matematico continuava a considerarlo inferiore rispetto a quello usato da filosofi e teologi, che sapevano come distinguere tra vero e falso. Il 12 aprile 1615 il cardinale Roberto Bellarmino scriveva al frate carmelitano P.A. Foscarini, che aveva cercato di conciliare l’eliocentrismo con la Sacra Scrittura:
Dico che mi pare che V.P. et il signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare “ex suppositione” e non assolutamente, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. Perché il dire che, supposto che la terra si muova et il sole stia fermo, si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la terra stia nel 3° cielo e giri con somma velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante.14
Come è ben noto, la raccomandazione di Bellarmino fu parzialmente accolta dallo stesso Galileo, ma solo come un espediente per tentare di evitare censure e condanne.
6. La svolta all’epoca di Newton
Newton è spesso giustamente considerato il fondatore della “fisica” nel senso moderno del termine. In effetti, anche se i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica si basano su definizioni e assiomi, secondo l’uso dell’antica matematica, l’intenzione di Newton di allontanarsi da tale modello è chiara sin dal titolo dell’opera, nel quale il termine mathematica appare solo come aggettivo, mentre il ruolo essenziale è assunto dalla filosofia naturale (ossia dall’antica fisica). L’editore Roger Cotes nella prefazione alla seconda edizione dei Principia, del 1713, illustra in modo particolarmente chiaro le novità metodologiche dell’opera. Dopo avere scartato altri metodi di ricerca, descrive quello scelto da Newton:
Resta così la terza specie, quella di coloro che professano la filosofia sperimentale. Questi sono del parere che le cause di tutte le cose debbano essere derivate da principi i più semplici possibili; e, invero, non assumono come principio niente che non sia stato provato dai fenomeni. Non immaginano ipotesi, né le accettano nella fisica se non come problemi la cui verità è oggetto di discussione. Procedono perciò secondo un duplice metodo, l’analitico e il sintetico. Mediante l’analisi deducono le forze della natura e le leggi più semplici delle forze da certi particolari fenomeni, per mezzo dei quali espongono poi, mediante la sintesi, la costituzione delle cose restanti. Questo è quel modo di filosofare, senz’altro il migliore, che a preferenza di altri il nostro celeberrimo autore stabilì di abbracciare.15
Lo stesso Newton conferma più volte l’interpretazione del suo editore. Ad esempio nello Scolio generale che chiude l’opera scrive:
Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche. In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione.
Nelle affermazioni di Newton e di Cotes vediamo nascere la moderna fisica come scienza distinta dall’antica matematica. L’antico metodo scientifico è esplicitamente rifiutato. La scienza di Newton, a differenza della filosofia naturale classica, usa sistematicamente strumenti che sono matematici nell’attuale significato del termine (ad esempio la teoria delle coniche), ma è fisica (ossia philosophia naturalis nella terminologia di Newton) e non più matematica, perché Newton (che era anche un appassionato cultore di teologia) rifiuta esplicitamente le ipotesi (delle quali sa che non si può stabilire la verità) e non si accontenta di una teoria capace di salvare i fenomeni (ossia le apparenze), essendo interessato alla verità assoluta, la cui conoscenza già Posidonio e poi Simplicio e Tommaso, seguendo Aristotele, avevano riservato appunto ai fisici. L’antica idea che alle ipotesi di una teoria non fossero applicabili i concetti di verità e falsità è banalizzata immaginando che si tratti di affermazioni ancora in discussione, che dovranno prima o poi essere definitivamente accolte o rifiutate, generando così il moderno significato del termine. Anche il termine greco φαινόμενα (fenomeni) assume il nuovo significato cui siamo abituati. Non si tratta più di apparenze, ma di fatti oggettivi, che si pensa di poter descrivere prescindendo dal metodo con cui vengono osservati. L’antica consapevolezza che teorie diverse possano salvare gli stessi fenomeni è sostituita dall’ingenua convinzione che i fenomeni individuino univocamente e definitivamente principi assolutamente veri. Mentre la struttura tecnica della moderna fisica è basata in modo essenziale sui risultati dell’antica matematica, il nuovo status epistemologico è profondamente influenzato dalle opere di Aristotele e dalla tradizione teologica. Capiamo ora perché Aristotele ci sia apparso abbastanza moderno quando discute le differenze tra fisica e matematica, nonostante la sua “fisica” ci sia estranea e lontana.
7. La scissione tra fisica e matematica e la storia della scienza
Le teorizzazioni metodologiche esposte da Newton e Cotes si diffusero insieme alla meccanica newtoniana. La scienza esatta ne risultò spezzata in due tronconi: la matematica e la fisica. Ambedue le scienze avevano ereditato dall’antica matematica il metodo dimostrativo e molti risultati tecnici e dall’antica fisica (ossia dalla filosofia naturale) l’idea di produrre affermazioni assolutamente vere. La differenza essenziale riguardò la natura di tale verità. Mentre le assunzioni della matematica (dette postulati) furono considerate verità immediatamente evidenti, le assunzioni della fisica (dette principi), furono considerate vere in quanto “provate dai fenomeni”, come aveva scritto Cotes. Quanto alle altre affermazioni, esse potevano essere dedotte da quelle iniziali; mentre però nel caso della matematica il metodo dimostrativo era essenziale, costituendo l’unico metodo per stabilire verità non immediatamente evidenti, le affermazioni fisiche, pur essendo deducibili dai principi, erano considerate anche direttamente verificabili, e ciò indeboliva, nel loro caso, l’interesse per il metodo dimostrativo, il cui uso diveniva opzionale. Agli enti studiati dalle due discipline furono attribuite diverse nature: gli enti matematici, pur essendo utilizzabili per descrivere oggetti concreti, furono considerati astratti, mentre gli enti della fisica furono considerati tanto concreti quanto gli oggetti dei quali fornivano il modello.
La scelta degli argomenti che furono considerati matematici o fisici può sembrare in una certa misura arbitraria. Ad esempio la statica e l’ottica furono incluse nella fisica, mentre la geometria rimase un capitolo essenziale della matematica. Il metodo, che nell’antichità era stato lo stesso nei tre casi, fu modificato in modo coerente ai nuovi criteri di classificazione. In geometria, in particolare, si indebolì il rapporto con la pratica del disegno eliminando dalle trattazioni moderne tutte le proposizioni in cui Euclide dimostra la costruibilità, e quindi l’esistenza, delle figure geometriche considerate (proposizioni che non si concludevano con la familiare formula come si doveva dimostrare, ὅπερ ἔδει δεῖξαι, ma con quella, oggi dimenticata, come si doveva fare, ὅπερ ἔδει ποιῆσαι). Nelle discipline incluse nella fisica si indebolì invece l’uso del metodo dimostrativo, finendo spesso col considerare “leggi sperimentali” anche affermazioni dimostrabili sulla base di principi semplici. Ad esempio, come abbiamo già ricordato, nelle trattazioni moderne dell’idrostatica si enunciò come legge sperimentale il cosiddetto “principio di Archimede”, che nel trattato di Archimede Sui galleggianti era un teorema.
Il nome matematica rimase legato soprattutto a quei settori in cui l’uso dei trattati greci continuò a essere essenziale. Naturalmente furono poi considerati matematici anche gli argomenti sviluppati con continuità a partire da questi, ma lo sviluppo impetuoso della matematica nel Settecento e nel primo Ottocento, via via che si discostava dai contenuti classici, finì con l’allontanarsi anche dal rigore del metodo dimostrativo.
Il nuovo significato dei termini fisica e matematica generò la convinzione che non vi fosse stata una vera fisica nella scienza greca. Una conferma a quest’ultima osservazione viene da uno dei pochi studiosi che si sia occupato della fisica dei Greci: Samuel Sambursky. Nel suo libro The physical world of the Greeks (Routledge, London, 1956) egli cita continuamente filosofi del periodo ellenico e quasi mai scienziati ellenistici. Probabilmente non aveva ritenuto necessario leggere, ad esempio, le opere di Archimede, preferendo studiare gli antichi filosofi della natura, perché aveva ritenuto che questi ultimi, in quanto fisici (ossia φυσικοί), rientrassero nel suo tema meglio di Archimede e degli altri esponenti della scienza esatta ellenistica, che considerava matematici.
Quello di Sambursky non è affatto un caso isolato. La distanza metodologica tra la scienza moderna e quella antica aveva reso difficile comprendere le opere classiche, che furono sistematicamente fraintese da storici della scienza convinti che le categorie e le classificazioni della scienza moderna avessero un valore assoluto.
Consideriamo, ad esempio, l’Ottica di Euclide. L’opera inizia enumerando alcuni postulati riguardanti gli enti fondamentali della teoria, detti ὄψεις (termine che possiamo tradurre in “raggi visuali”), che sono semirette uscenti dalla pupilla e separate l’una dall’altra da intervalli angolari. Si tratta di un semplice modello matematico della percezione visiva, che permette di quantificare il potere risolutivo dell’occhio. Euclide postula che vi sia un numero finito di raggi visuali e che la visione di un oggetto sia tanto più nitida quanto maggiore è il numero di tali raggi che lo colpisce; quest’idea può essere tradotta in termini moderni dicendo che l’informazione sull’oggetto visto trasmessa al cervello è tanto più ricca quanto maggiore è il numero dei fotorecettori coinvolti. In effetti prolungando i raggi visuali dalla pupilla verso l’interno del globo oculare otteniamo un insieme di punti della retina che possono schematizzare i fotorecettori (che sono ovviamente in numero finito).16 Fino alla metà del XX secolo gli studiosi moderni avevano ritenuto primitiva questa teoria di Euclide senza capirla. All’origine del fraintendimento vi era la frattura tra la matematica, che doveva usare il metodo euclideo, e la fisica, che non doveva costruire modelli basati su postulati, ma produrre affermazioni vere direttamente sulla natura. Un’opera chiamata Ottica, anche se scritta da Euclide, usando i criteri moderni, veniva classificata automaticamente tra le opere di fisica. Poiché gli enti delle teorie fisiche, a differenza degli enti matematici, erano concepiti come oggetti concreti, gli storici moderni dovevano necessariamente pensare che gli antichi “raggi visuali” di Euclide coincidessero con i moderni “raggi di luce” (che in realtà Euclide distingue accuratamente dalle ὄψεις, chiamandoli ἀκτῖνες). Se qualche proprietà dei “raggi visuali” di Euclide non era condivisa dai raggi di luce degli scienziati moderni la sola conseguenza che si poteva trarne era quindi che Euclide avesse sbagliato.17 Osserviamo che anche il significato della parola ottica era cambiato: mentre il termine greco ὀπτική, da cui deriva il nostro, significava (scienza) della visione, i moderni gli dettero il significato di scienza della luce. L’oggetto di questa scienza non fu più, cioè, la percezione visiva ma la luce, ossia un oggetto naturale che si pensava di poter descrivere prescindendo dal modo in cui poteva essere osservato. Il significato del termine fenomeno era mutato esattamente allo stesso modo.
8. Dal Settecento al Novecento
La scissione tra fisica e matematica avvenuta all’epoca di Newton non era stata completa: anche se fu per lo più accettata sul piano filosofico, storico e didattico, molti dei maggiori scienziati, da Eulero ai Bernoulli, da Gauss a Laplace, ignorarono il confine tra le due discipline, ottenendo molti risultati non facilmente classificabili sotto l’una o l’altra etichetta. A volte sopravviveva anche l’antica terminologia: ad esempio Joseph Fourier (1768-1830) sembra riprendere la tradizione della antica matematica quando fa rientrare nell’“analisi matematica” le sue ricerche sulla trasmissione del calore, nelle quali la costruzione del modello è difficilmente separabile dai problemi tecnici interni al modello stesso.18
Nel corso dell’Ottocento e del Novecento, mentre i risultati della scienza esatta sono cresciuti con un ritmo esponenziale che ha permesso uno sviluppo tecnologico senza precedenti, la storia dello status epistemologico della fisica e della matematica e dei loro rapporti è stata complessa: una tendenza unitaria, volta alla loro riunificazione, si è scontrata con alterne vicende con la tendenza opposta, verso una crescente divergenza.
Le basi della separazione tra matematica e fisica accennate nei due paragrafi precedenti, sintetizzabili nelle tesi che le verità matematiche fossero enunciabili a priori, mentre i principi della fisica fossero dimostrabili sperimentalmente, divennero insostenibili alla luce dei nuovi sviluppi scientifici. La scoperta delle geometrie non euclidee aveva infatti falsificato la tesi che i postulati della geometria euclidea fossero verità enunciabili a priori e un secolo più tardi la crisi della meccanica classica rese evidente che i principi fisici non potevano essere verificati sperimentalmente, come aveva creduto Newton. I fenomeni già usati come prova dei principi newtoniani si rivelarono infatti compatibili anche con principi diversi, che erano in grado di «salvare» una fenomenologia più vasta.
Mentre nell’ambito del generale sviluppo della filologia classica si riaccese anche l’interesse per la scienza greca (a questo periodo risalgono quasi tutte le edizioni critiche oggi esistenti delle opere scientifiche greche), scienziati, filosofi e storici della scienza tentarono di recuperare l’antico metodo della scienza esatta unitaria. Studi su Euclide riscoprirono l’importanza della costruzione geometrica come prova di esistenza e allo stesso tempo sorse una scuola costruttivista tra i matematici. L’idea che compito della scienza fosse l’elaborazione di teorie rigorose usate come modelli in grado di salvare i fenomeni fu allo stesso tempo studiata nella scienza antica (ricordiamo, in particolare, il libro di Pierre Duhem Sauver les apparences: φαινόμενα σῴζειν, del 1906) e riproposta nella scienza moderna. Risale allo stesso Duhem (insieme a Quine) il recupero dell’antica idea, che fu detta della sottodeterminazione delle teorie scientifiche, che le teorie non siano univocamente determinate dai dati sperimentali. Osserviamo che da ciò discende immediatamente il cosiddetto falsificazionismo: un esperimento può falsificare una teoria, ma mai assicurarne la verità.
Queste conquiste non impedirono che l’epistemologia implicita degli scienziati, guidata dagli sviluppi tecnici delle loro discipline, seguisse strade diverse e divergenti.
Negli anni Settanta dell’Ottocento la teoria dei numeri reali (nata grazie alla traduzione nel nuovo linguaggio numerico, a opera di Weierstrass e Dedekind, della definizione 5 del V libro degli Elementi di Euclide) aveva permesso di dare all’analisi matematica il rigore che fino ad allora le era mancato. Nei decenni successivi i matematici svilupparono una serie di teorie assiomatiche che, inseguendo l’obiettivo di un rigore assoluto, abbandonarono del tutto l’altro pilastro dell’antico metodo, ossia il rapporto con il mondo reale. Gli assiomi delle varie teorie, privati di ogni contenuto semantico, furono concepiti come semplici “regole del gioco” utili per dedurre altre affermazioni, anch’esse prive di rapporto con la realtà. Anche la geometria, privata del suo contenuto intuitivo, fu ridotta a un puro gioco logico. Sono famose l’affermazione di Hilbert che nella teoria assiomatica della geometria, invece di punti, rette e piani si potrebbe parlare di tavoli, sedie e boccali di birra19 e quella di Bertrand Russell che in matematica non si sa di cosa si sta parlando, né se quello che si dice sia vero. Si pose allora il problema di giustificare in qualche modo la scelta degli assiomi, se non altro accertandosi che non fossero contraddittori. Hilbert pensò di risolverlo con il metodo dimostrativo, formulando l’ambizioso progetto dell’autofondazione della matematica (che è stato efficacemente paragonato al tentativo di sollevarsi dal suolo tirandosi su con le proprie mani). Anche dopo il fallimento del progetto hilbertiano, e nonostante la presenza di scuole intuizioniste e costruttiviste, la tendenza formalista non si esaurì, ma in Francia fu riproposta con forza dalla scuola bourbakista, che sostenne l’idea della completa eliminazione dei disegni anche nella didattica della geometria della scuola secondaria. La matematica, che Gauss aveva detto “la regina delle scienze”, una volta privata di ogni rapporto con la realtà concreta, fu considerata esterna alla scienza. Divenne naturalmente inspiegabile come mai una tale matematica fosse utile ai fisici. Nel 1960 Eugene Wigner (che tre anni dopo avrebbe vinto il premio Nobel per la fisica) scrisse il famoso articolo The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences.
Quanto alla fisica, nel corso dell’Ottocento si era divisa in due settori che tendevano a divaricarsi: fisica sperimentale e fisica matematica. I due metodi che avevano caratterizzato la scienza esatta, il metodo sperimentale e quello dimostrativo, cominciarono così a essere concepiti come caratteristici di discipline diverse e praticati da classi diverse di ricercatori. Alla fine del secolo il quadro si complicò perché in Germania nacque una nuova disciplina, la fisica teorica, che si interpose tra la fisica sperimentale e la fisica matematica. Quest’ultima, espulsa dalla fisica, finì con l’essere considerata una disciplina matematica. Gli eccezionali risultati ottenuti nei primi decenni del Novecento sotto l’etichetta della fisica teorica (in primo luogo la meccanica quantistica) non debbono, a mio parere, nascondere la debolezza dello status epistemologico di una disciplina che, nel cuore della scienza esatta, si caratterizzava per la sua estraneità sia al metodo sperimentale sia a quello dimostrativo. Non è questo il luogo per un esame di questo delicato argomento, ma sulla scarsa considerazione in cui i fisici teorici tenevano le dimostrazioni matematiche si può citare l’opinione dell’importante scienziato Res Jost:
Negli anni Trenta, sotto la demoralizzante influenza della teoria quantistica delle perturbazioni, la matematica richiesta a un fisico teorico si era ridotta a una conoscenza elementare degli alfabeti latino e greco.20
9. Il passato recente e la situazione attuale
È appena il caso di accennare agli sviluppi più recenti dei concetti di fisica e matematica. Si può temere che i nodi epistemologici che hanno accompagnato la fisica teorica sin dal suo nascere stiano venendo al pettine investendo la qualità della ricerca in settori importanti di questa disciplina. A parere di molti la ricerca, abbandonando l’antico precetto di elaborare teorie allo scopo di salvare i fenomeni, si è sviluppata indipendentemente dai fenomeni osservabili, sviluppando teorie scelte sulla base di criteri estetici, salvo tornare eventualmente alla realtà in un secondo momento, per cercare fenomeni in grado di salvare le teorie. Un caso estremo di fuga dalla realtà è rappresentato dalle teorie basate sul concetto di multiverso, ma anche la teoria delle stringhe si è sviluppata a lungo per spinte interne indipendenti da eventuali riscontri sperimentali.21 Le motivazioni di una parte dei ricercatori di questo settore sono sintetizzate nella seguente affermazione del fisico Henry Tye:
String theory is too beautiful, rich, creative, and subtle not to be used by nature. That would be such a waste!22
Nell’ambito dei teorici delle stringhe è anche nata la proposta di affiancare alla classica fisica matematica (mathematical physics) la nuova disciplina della matematica fisica (physical mathematics), che dovrebbe estendere al cuore della matematica i metodi tipici della fisica teorica.
Nel nuovo millennio la critica agli sviluppi della fisica teorica ha coinvolto anche esponenti di primo piano del mondo accademico. Ad esempio nel 2016 Roger Penrose (che nel 2020 avrebbe vinto il premio Nobel per la fisica) ha pubblicato un libro dal titolo eloquente: Fashion Faith and Fantasy in the New Physics of the Universe (Princeton University Press).
Per le direzioni in cui si sta modificando lo status epistemologico della matematica credo che sia possibile individuare due tendenze apparentemente di segno opposto. Sul piano della riflessione teorica la matematica continua a essere concepita come una disciplina astratta e l’epistemologia implicita (e a volte anche esplicita) più diffusa tra i matematici è oggi quella neoplatonica. Allo stesso tempo il rapporto con il mondo concreto si sviluppa e rafforza però di fatto in molti settori di ricerca. Mentre un tempo le applicazioni della matematica avvenivano quasi sempre attraverso la mediazione della fisica, si sono moltiplicate le teorie matematiche sorte direttamente come modelli di fenomeni reali, anche in settori lontani da quelli tradizionalmente di interesse dei fisici. Oltre al calcolo delle probabilità e alla teoria dell’informazione, sono andati in questa direzione, ad esempio, gli algoritmi elaborati per ricostruire o riconoscere suoni o immagini e, più in generale, i modelli di reti neurali alla base dei recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale. Questi nuovi settori, a volte nati all’interno della meccanica statistica come modelli di fenomeni naturali, grazie alle tecnologie informatiche, sono divenuti strumenti utili per progettare direttamente prodotti tecnologici e ripropongono le caratteristiche fondamentali dell’antica scienza esatta unitaria: la scelta relativamente libera delle assunzioni iniziali, il rigore delle deduzioni all’interno del modello scelto e il rapporto diretto con la progettazione tecnologica.
1 Il chiaro enunciato della “legge di Snell” è nel Libro sugli strumenti ustori (Kitāb al-harrāqāt), scritto da Ibn Sahl tra il 982 e il 984. L’opera è stata pubblicata da Roshdi Rashed, che l’ha trovata in un manoscritto conservato a Teheran (Roshdi Rashed, Géométrie et dioptrique au Xe siècle: Ibn Sahl, Al-Qui et Ibn Al-Haytham, Les Belles Lettres: Paris, 1993).
2 Ad esempio in Metaphysica, VI, 1.
3 Aristotele, Physica, 193b-194a.
4 Diogene Laerzio (Vitae philosophorum, I, 18) assume come generalmente accettata la divisione della filosofia in tre settori: fisica (ossia naturale), etica e logica.
5 Il termine greco ὑπόθεσις, che abbiamo traslitterato ipotesi, significava base, fondamento ed equivaleva al nostro principio. Sesto Empirico (Adversus Mathematicos, III, 1, 3) usa questo termine anche per i postulati della geometria.
6 Epicuro, Lettera a Pitocle (in Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, X, 87).
7 Simplicio, in Aristotelis physicorum libros commentaria, vol. 9, 291, 23-292, 19.
8 Nella tarda antichità il termine matematico fu spesso usato come sinonimo di astronomo, probabilmente anche per l’influenza del titolo originale dell’opera astronomica di Tolomeo (oggi più nota con il nome arabo Almagesto), che era Trattato matematico (μαθηματικὴ σύνταξις).
9 Simplicio, in Aristotelis physicorum libros commentaria, vol. 9, 291, 19-20.
10 Tolomeo, Almagesto, XII, i (Claudii Ptolemaei Opera quae extant omnia. Vol. I, Syntaxis Mathematica, ed. J.L. Heiberg, Part 2, Lipsiae in aedibus B.G. Teubneri, 1903), pp. 451-454.
11 La scienza ellenistica crollò già a metà del II secolo a.C., in seguito alla conquista romana del mondo mediterraneo. Ho sostenuto questa tesi in più luoghi e in particolare in Il tracollo culturale. La conquista romana del Mediterraneo (146-145 a.C.), Carocci: Roma, 2022.
12 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, parte I, questione XXXII, articolo 1, ad secundum.
13 Galileo Galilei, Discorsi e Dimostrazioni Matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla Mecanica & i Movimenti Locali, vol. 8 dell’Edizione Nazionale, Barbera: Firenze, 1898, pp. 266-267.
14 La lettera è riportata nell’Edizione Nazionale delle opere di Galileo Galilei, vol. 12, pp. 171-172.
15 Isaac Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, Barillot & filii: Genevae, 1739, p. XVI.
16 Si può immaginare che Euclide, nell’elaborare il suo modello della visione, avesse tenuto conto dei risultati di Erofilo di Calcedonia, che aveva descritto in dettaglio la struttura della retina.
17 Questo genere di fraintendimento è chiaro, ad esempio, sia nell’introduzione che Giuseppe Ovio, nel 1918, premise alla sua traduzione dell’opera di Euclide, sia nelle considerazioni sull’Ottica di Euclide di Thomas Heath (A History of Greek Mathematics, Clarendon Press: Oxford, 1921, vol. 1, pp. 441-442).
18 Joseph Fourier, Théorie analytique de la chaleur, Discours préliminaire, Fermin Didot: Paris, 1822.
19 L’affermazione è riferita da Otto Blumenthal nella sua biografia di Hilbert.
20 Traggo questa citazione da Ray F. Streater, Arthur S. Wightman, PCT, Spin and Statistics, and All That, W.A. Benjamin: New York-Amsterdam, 1964, p. 31.
21 Nel nuovo millennio si sono moltiplicate le critiche verso questo indirizzo di ricerca. Ricordiamo Peter Woit, Not Even Wrong: The Failure of String Theory and the Continuing Challenge to Unify the Laws of Physics, Jonathan Cape: London, 2006; Lee Smolin, Rien ne va plus en physique! L’échec de la théorie des cordes, Dunod: Paris, 2006.
22 Citato in Shing-Tung Yau, Steve Nadis, The Shape of Inner Space. String Theory and the Geometry of the Universe’s Hidden Dimensions, Basic Books: New York, 2010.