Alle radici dell’ecografia (1880-1949): la “magia” del quarzo per le applicazioni belliche e civili

Angelo Vedovelli *

Medico Internista, Assisi

Contributo presentato da Luigi Bolondi

 

Abstract

Long before ultrasound became a cornerstone of modern diagnostics, a journey of discovery had already begun. This article retraces what can be considered the “prehistory” of medical ultrasound, focusing on the period from 1880 to 1949. Beginning with the discovery of piezoelectricity by the Curie brothers and the subsequent applications of quartz, it illustrates how military and civil needs contributed to the emergence of ultrasound imaging. The study highlights how human ingenuity and perseverance led to the development of an extraordinary diagnostic technique, which continues to evolve to this day.

Keywords

Ultrasound history, Piezoelectric quartz, Diagnostic ultrasound.

Nota esplicativa
Hz (hertz): unità di misura della frequenza delle onde sonore, indica il numero di cicli per secondo. 1 kHz = 1.000 Hz; 1 MHz = 1.000.000 Hz. Il limite tra suoni udibili e ultrasuoni è convenzionalmente fissato a 20.000 Hz (20 kHz).

© Angelo Vedovelli, 2025 / Doi: 10.30682/annalesps2503d

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* angeve@libero.it

Introduzione

L’integrazione dell’Intelligenza Artificiale (IA) nell’imaging ecografico promette di potenziare le capacità diagnostiche e snellire i flussi di lavoro clinici. Un potenziale, questo, accompagnato tuttavia da sfide connesse con la effettiva implementazione nella pratica clinica. Certo è che, più ci si proietta in avanti, più il passato remoto dell’ecografia si fa nebuloso, fino ad apparire estraneo alla realtà del divenire. Scopo di questo lavoro è ripercorrere il prima della storia dell’ecografia fino a lambirne l’inizio. È una vicenda di Intelligenza Umana che prende avvio dall’interesse per i cristalli di due giovani ricercatori di fine Ottocento e con un percorso a zig-zag incrocia contingenze belliche e multiformi esigenze civili, e solo alla fine approda alla ispirazione di “vedere con il suono” all’interno di organismi viventi. Da lì in poi procede la storia della ecografia, destinata a rivoluzionare il campo della diagnostica medica più di ogni altra tecnica di indagine [1]. Ma, appunto, questa rivoluzione non nasce per generazione spontanea: è il frutto di un corpo di conoscenze ed esperienze accumulatesi nel tempo e che ne costituiscono il fondamento. La rievocazione che se ne fa in questo contesto ha due elementi di arbitrarietà. Il primo riguarda l’arco temporale (1880-1949) scelto per delimitare il periodo delle “radici”: la data di inizio – ovvero quella della scoperta del fenomeno della piezoelettricità – è perfino ovvia, mentre con la seconda ci si è fermati alle soglie degli anni Cinquanta del secolo scorso, dunque subito prima delle pionieristiche sperimentazioni della tecnica ecografica in campo clinico. Il secondo elemento è invece di ordine metodologico. La letteratura che ricorda le origini dell’ecografia è costituita da un lato da ricostruzioni molto dettagliate e ricche di riferimenti fisici e ingegneristici, pienamente apprezzabili solo da specialisti della materia, dall’altro lato da cronache troppo stringate per restituire una visione organica dello sviluppo dei fatti. Il resoconto che segue intende collocarsi a metà strada tra questi due estremi. Per tale motivo, ad un esame meticoloso non sfuggirà né l’esposizione sintetica di alcuni aspetti tecnici né, parlando di protagonisti, l’omissione di qualche comprimario. Si tratta di un compromesso per non perdere di vista un filo rosso lungo settant’anni.

1. Dai cristalli agli icebergs

La scoperta della piezoelettricità: una questione di (a)simmetria

La Belle Époque segnò l’Europa non solo sul piano artistico e culturale, sociale e di costume. L’assoluta fiducia nella scienza e nel progresso di marca positivista fu terreno fertile per uno sviluppo scientifico e tecnologico senza precedenti. Tra le linee di ricerca che in quegli anni andavano progredendo in Fisica, grande impulso ebbero gli studi di mineralogia, inclusi quelli sulle relazioni tra caratteristiche geometriche e proprietà fisiche dei cristalli. Era già noto che la proprietà della tormalina e di altri cristalli di generare una carica elettrica in risposta al riscaldamento o al raffreddamento, la loro piroelettricità, era legata alla asimmetria della loro geometria cristallina poiché il fenomeno non si presentava con i cristalli simmetrici. Tuttavia, il meccanismo che collega gli effetti termici e quelli elettrici rimase sconosciuto fino alle ricerche sulla piroelettricità pubblicate nel 1880 dai fratelli Jacques e Pierre Curie (Fig. 1A)1, allora poco più che ventenni e preparatori di laboratorio presso la Facoltà di Scienze di Parigi. Così scrivevano nel paragrafo di apertura del loro resoconto: “I cristalli che hanno uno o più assi con estremità dissimili, cioè i cristalli emiedrici [semi-simmetrici, N.d.T.] con facce oblique, possiedono la particolare proprietà fisica di generare due poli elettrici di segno opposto alle estremità degli assi suddetti in risposta ad una variazione di temperatura: è il fenomeno noto come piroelettricità. Noi abbiamo trovato un nuovo metodo di sviluppare elettricità polare in questi stessi cristalli, che consiste nel sottoporli a variazioni di pressione lungo i loro assi emiedrici” [2].

Fig. 1. Alle radici dell’ecografia. Galleria di protagonisti

I Curie ritenevano che l’effetto determinato da una variazione termica fosse in realtà la conseguenza di una contrazione ed espansione del cristallo in grado di dar luogo alla comparsa di cariche elettriche; secondo tale ipotesi, anche una deformazione prodotta per via meccanica avrebbe generato cariche elettriche. È per provare la correttezza di questa ipotesi che i due fratelli testarono vari tipi di cristalli asimmetrici, tra cui il quarzo (Fig. 2), ritagliando per ognuno – servendosi di un seghetto da gioielliere – una lamina secondo direzioni particolari rispetto agli assi cristallografici. La lamina era posta tra due fogli di carta stagnola con la funzione di elettrodi, collegati ad un elettrometro, e il complesso cristallo-elettrodi inserito tra le ganasce di un morsetto. I Curie avevano ragione: pressando la lamina di cristallo, l’elettrometro indicava una differenza di potenziale, segno che la compressione aveva prodotto cariche elettriche positive su una delle facce e negative su quella opposta. Anche stirandola si generava elettricità, ma con polarità invertita: l’estremità caricatasi positivamente per compressione diventava negativa; e viceversa. I Curie confrontarono questi effetti con quelli dei gradienti termici, accertando che la compressione induceva la stessa polarità del raffreddamento, e la decompressione quella del riscaldamento. In definitiva, è per fornire una spiegazione al fenomeno della piroelettricità che venne scoperta la piezoelettricità (dal greco “piézein”, comprimere). Poiché il quarzo ha elevata durezza, le deformazioni subìte dalla lamina sotto sollecitazione meccanica dovevano essere dell’ordine di nanometri, o anche inferiori. Tuttavia, parlando oggi su scala atomica, erano sufficienti affinché gli atomi di silicio e ossigeno del reticolo cristallino si spostassero per frazioni di diametro molecolare, dalle loro posizioni di equilibrio in direzioni opposte, e con essi le rispettive cariche elettriche. Ne risultava una successione di dipoli “ ± “ lungo le linee di campo elettrico, facendo sì che sulle superfici opposte della lamina comparissero cariche elettriche di segno opposto. Il risultato macroscopico era quello messo in luce dai Curie: ovvero la polarizzazione del cristallo (elettricamente neutro quando non deformato). Di certo, flebilissime – dell’ordine di microampere, o meno – erano le correnti elettriche generate, che tuttavia furono rilevate con gli elettrometri dell’epoca. I Curie non trascurarono di esaminare anche cristalli simmetrici, osservando che non possedevano la capacità di sviluppare elettricità polare per compressione. I due fratelli, però, non avevano previsto che i cristalli che mostravano l’effetto piezoelettrico diretto (elettricità da deformazione meccanica) avrebbero manifestato anche l’effetto piezoelettrico inverso (deformazione da applicazione di un campo elettrico). Questa proprietà fu prevista per via teorica dal fisico francese Gabriel Lippmann nel 1881, e i Curie si affrettarono a confermarla sperimentalmente [3]. Geniale il sistema da loro ideato per rilevare deformazioni del cristallo altrimenti impercettibili: al cristallo veniva applicato un campo elettrico per indurre una dilatazione che, impedita, generava una forza meccanica; questa, agendo su un secondo cristallo accoppiato meccanicamente, produceva – per effetto piezoelettrico diretto – un segnale elettrico rilevabile con un elettrometro. In altri termini, l’effetto piezoelettrico inverso fu messo in luce sfruttando l’effetto diretto. La previsione di Lippmann era brillantemente confermata.

Fig. 2. A sinistra, cristalli naturali di quarzo ialino; a destra, esemplare levigato (5.2 × 1,6 × 1,6 cm, ca.). In entrambi i casi è evidente la morfologia prismatico-esagonale con terminazioni piramidali, tipica della specie.

 

L’ affondamento dell’inaffondabile e la “soluzione acustica”: l’eco

I fratelli Curie applicarono l’effetto piezoelettrico per realizzare un “elettrometro al quarzo”, strumento di laboratorio in grado di misurare deboli correnti elettriche. Sul finire del secolo, Pierre e la moglie Marie se ne servirono per rilevare le minime correnti elettriche generate dalla ionizzazione dell’aria causata da materiali radioattivi, misurando così indirettamente il loro grado di radioattività. Ma per il resto il fenomeno della piezoelettricità rimase a lungo una mera curiosità scientifica, né esso aveva cambiato di rango quando la nostra storia riprende il suo corso, nel 1912. L’impatto emotivo suscitato dall’affondamento del Titanic il 15 aprile di quell’anno in seguito alla collisione nella nebbia con un iceberg fu enorme in tutto il mondo. Perirono oltre 1500 persone, e con esse una nave che per le soluzioni tecniche d’avanguardia che adottava era ritenuta inaffondabile. La tragedia sollecitò prontamente la ricerca di un sistema capace di rilevare iceberg navigando nel buio o nella nebbia. Inviare un suono sott’acqua e ricercare un’eco di ritorno appariva “la soluzione”: registrare un’eco di rimbalzo avrebbe indicato la presenza di un ostacolo, e inoltre se ne sarebbe potuta calcolare la distanza moltiplicando la velocità del suono in acqua (che era nota) per il tempo intercorso tra l’invio del suono e la ricezione dell’eco. Ma c’erano da affrontare lacci di natura fisica e limiti di natura tecnica. Il metodo del suono-eco sviluppato nel 1913 dal fisico tedesco Alexander Behm per rilevare gli iceberg mediante la propagazione orizzontale di onde sonore si rivelò inefficace, a causa della dispersione laterale del suono. Ma ciò che non funzionò in orizzontale funzionò in verticale: grazie alla sua competenza nel misurare intervalli di tempo brevissimi, Behm riuscì a determinare la profondità del mare sotto una nave. La sorgente sonora era una piccola carica esplosiva fatta detonare sotto la superficie dell’acqua: l’eco riflessa dal fondale veniva captata da un microfono sul lato opposto dell’imbarcazione, il cui scafo fungeva da schermo contro il rumore dell’esplosione. Un ingegnoso “cronomicrometro” permetteva di misurare il tempo dell’eco e calcolare così la profondità [4]. Con il cosiddetto “Echolot” di Behm era nata la prima forma di eco-scandaglio, dopo che per secoli ci si era affidati al rudimentale scandaglio a sagola, per effettuare misure di profondità, ovvero una corda con un peso in piombo che veniva calata fino a toccare il fondo. Nel 1914, a seguito di un brevetto depositato l’anno prima [5], il fisico canadese Reginald Fessenden (Fig. 1B) testò in mare un “oscillatore” meccanico subacqueo: un disco d’acciaio di circa 75 cm di diametro e 12 mm di spessore circondato da una bobina elettromagnetica. Il passaggio di corrente alternata nella bobina generava un campo magnetico oscillante che faceva vibrare il disco avanti e indietro, causando la propagazione di onde elastiche nell’acqua. Quando colpito da onde riflesse da un iceberg, il disco tornava a vibrare, inducendo una variazione del campo magnetico nella bobina e generando un segnale elettrico, rilevabile dall’operatore tramite cuffia telefonica. Sebbene il dispositivo si fosse rivelato in grado di rilevare iceberg fino a due miglia di distanza, l’emissione prolungata, anziché intermittente, creava interferenze con gli echi di ritorno, limitandone l’efficacia come sistema di allerta. Inoltre, il dispositivo oscillava “solo” 540 volte al secondo, e suoni con questa frequenza si propagavano per legge fisica con un fronte d’onda sferico, in tutte le direzioni. E in forma sferica ritornavano anche gli echi rimbalzati da un iceberg, segnalando un ostacolo ma senza indicarne la posizione. Solo i suoni ad alta frequenza, gli ultrasuoni, si irradiano come un fascio ristretto e direzionabile. Ed era un’eco ottenuta solo da una direzione precisa che avrebbe permesso anche la localizzazione dell’iceberg. Consapevole di ciò, appena cinque giorni dopo il naufragio del Titanic il matematico inglese Lewis Fry Richardson (Fig. 1C) presentò domanda di brevetto per un sistema di eco-localizzazione degli iceberg basato su un fischio ad ultrasuoni, posizionato al centro di un riflettore parabolico che serviva a concentrare e dirigere il suono [6]. Ma il suo dispositivo non vide mai la luce.

2. Oltre il suono

La minaccia viene ancora dal mare

Furono ancora disastri navali a smuovere le acque della nostra storia. Tra questi, l’affondamento del transatlantico Lusitania da parte di un U-boat tedesco al largo dell’Irlanda nel 1915 (1198 vittime), evento che contribuì a incrinare i rapporti tra Stati Uniti e Germania e ad alimentare l’opinione pubblica a favore dell’intervento. Ma non si trattò solo del Lusitania. I dati dicono che l’impatto dei 375 sottomarini tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale fu devastante. Secondo una fonte accreditata, furono affondate 7.672 navi mercantili per una stazza complessiva di oltre 15 milioni di tonnellate [7]. D’altra parte, le difese contro i sottomarini erano allora davvero esigue. Si poteva contare solo su idrofoni passivi, per captare il rumore emesso dal motore e dall’elica dei sommergibili, e sul camuffamento ottico degli scafi (dazzle camouflage).

Una serie di coincidenze

Se un ingegnere russo-francese non avesse avuto a disposizione tempo e contesto ambientale adatto per meditare un piano durante la convalescenza da tubercolosi in un albergo nelle Alpi svizzere, se il ministro a cui sottopose la sua idea non fosse stato un illustre matematico che ben conosceva Langevin, e se quest’ultimo non fosse stato allievo di Pierre Curie, il sonar sarebbe comunque stato inventato ma il suo sviluppo avrebbe seguito un’altra tempistica. Un esempio questo di come anche fattori casuali possano influenzare il progresso scientifico. Nel 1915 (gli U-boat erano in azione già dal settembre dell’anno precedente), Constantin Chilowsky (Fig. 1D) propone di usare gli ultrasuoni per individuare i sottomarini. Scartato il fischio meccanico suggerito da Richardson, pensa di generarli tramite una piastra di ferro laminato messa in vibrazione da un campo elettromagnetico ad alta frequenza, del tipo impiegato allora nella telegrafia senza fili. La proposta di Chilowsky passò attraverso vari ambienti accademici e diplomatici fino ad approdare sul tavolo di Paul Painlevé, ministro dell’Istruzione Pubblica e delle Invenzioni in Francia, che intuendone il potenziale la inoltrò a Paul Langevin (Fig. 1E), uno dei più brillanti fisici del tempo.

Paul Langevin: un flash

Come riprova del suo valore di scienziato basterebbe ricordare che Langevin è sepolto nel Pantheon di Parigi, che accoglie i Grandi di Francia (vi riposano anche Pierre Curie con la moglie Marie, e il già citato Painlevé). Allievo di Curie, maestro di Louis de Broglie, Langevin è tra le figure chiave della Fisica del XX secolo. Introdusse la teoria del diamagnetismo e paramagnetismo dei materiali, difese e divulgò la teoria della relatività di Einstein, di cui era intimo amico, interpretò la dilatazione temporale prevista dalla relatività (è suo il famoso “paradosso dei gemelli”). Di grande rilievo anche il suo impegno civile: pacifista convinto, antifascista e attivista politico, prese parte alla Resistenza francese sotto il regime di Vichy, venendo arrestato dalla Gestapo nel 1940. Nel 1911 scoppiò uno scandalo di vasta risonanza nella stampa quando fu scoperta la relazione tra Langevin, sposato con figli, e Marie Curie, già allora famosa scienziata e vedova dopo la tragica morte di Pierre nel 1906.

L’intuizione di Langevin

Langevin non ritenne praticabile l’approccio di Chilowsky che prevedeva la generazione di ultrasuoni a partire da onde elettromagnetiche, ma si interessò al problema e si avvalse della sua collaborazione come ingegnere. Inizialmente fu realizzato un condensatore costituito da due armature metalliche separate da una lamina di mica, che impediva il passaggio di corrente tra le due. L’obiettivo era far vibrare il sistema alimentato da corrente elettrica alternata ad alta frequenza in modo da produrre onde ultrasonore. Come ricevitore degli echi si impiegò un microfono a granuli di carbone. Tuttavia, le prove presso la base navale di Tolone non diedero i risultati sperati: il sistema vibrante era poco efficiente, e i ricevitori a granuli di carbone soffrivano di forti rumori di fondo. Era escluso pensare ad un impiego per la rilevazione di sottomarini. Abbandonata l’idea, la geniale intuizione di Langevin fu di sfruttare il fenomeno piezoelettrico diretto ed inverso scoperto dai fratelli Curie, in sostanza rimasto fino ad allora nel cassetto (come sopra riferito). Sottoponendo una lamina piezoelettrica di quarzo non ad un campo elettrico statico (come fatto dai Curie), ma ad oscillazioni elettriche ad alta frequenza, si sarebbe potuta ottenere una rapida alternanza di dilatazioni e contrazioni della lamina, trasmettendo così sott’acqua onde elastiche ad alta frequenza, cioè ultrasuoni. Per converso, in presenza di un ostacolo subacqueo le onde d’eco di ritorno, colpendo la lamina, avrebbero potuto provocarne una serie di deformazioni meccaniche generando segnali elettrici, amplificabili e rilevabili. Langevin si rivolse al laboratorio di Jacques Curie (Pierre era scomparso da tempo) per ottenere lamine piezoelettriche di quarzo.

La soluzione di Langevin: un mosaico e un sandwich

Vi erano però due problemi tecnici da affrontare. Il primo: localizzare con precisione i sottomarini per poterli inseguire e colpire richiedeva un fascio ultrasonoro molto stretto, ottenibile con frequenze assai elevate. Tuttavia, all’aumentare della frequenza cresce anche l’assorbimento in acqua, riducendo la portata degli ultrasuoni. Poiché era necessario raggiungere bersagli a notevoli profondità, Langevin dovette limitare la frequenza a 40.000 Hz, il che riduceva la focalizzazione del fascio. Per compensare, sarebbe servita una lamina piezoelettrica di quarzo sufficientemente ampia: maggiore è la superficie emittente, più stretto risulta il fascio. Secondo problema: era essenziale emettere ultrasuoni di elevata intensità affinché anche gli echi di ritorno risultassero abbastanza forti da poter essere rilevati. Questo richiedeva di applicare alla lamina voltaggi altissimi, difficilmente gestibili a bordo di navi. Poiché la frequenza di risonanza propria di una lamina – quella cioè a cui vibra con la massima efficienza – dipende dal suo spessore, l’uso di una lamina spessa avrebbe consentito di ridurre il voltaggio necessario. Ma era pressoché impossibile ottenere da un singolo cristallo naturale di quarzo una lamina piezoelettrica che fosse abbastanza ampia e spessa, oltre che priva di difetti. Langevin trovò la soluzione. Lamelle piezoelettriche di quarzo spesse 4 mm furono ritagliate e incollate tra loro in modo da formare un mosaico circolare omogeneo di 10 cm di diametro, a sua volta incapsulato tra due piastre d’acciaio alte 3 cm, a costituire un corpo unico e compatto (Fig. 3). Era così l’intero blocco a vibrare e a trasmettere ultrasuoni in acqua, soddisfacendo i requisiti di ampiezza e spessore della sorgente. Quanto agli echi ultrasonori ricevuti dal trasduttore, i segnali elettrici da essi generati venivano amplificati e, mediante un’eterodina (oscillatore locale), convertiti in frequenze più basse, udibili con una cuffia telefonica [8]. Nel maggio 1918, il “Sondeur Ultrasonore” di Langevin, con trasduttore al quarzo che fungeva sia da emettitore discontinuo di onde ultrasonore che da ricevitore dei loro echi, rilevò per la prima volta un sommergibile: il francese Messidor, individuato a una profondità di 500 metri. Era nato l’antenato di quello che, molti anni più tardi, sarebbe stato chiamato SONAR, ma la fine imminente della guerra ne impedì l’impiego in teatri bellici. Va notato che le ricerche di Langevin venivano liberamente diffuse nei laboratori di altri Paesi alleati. In Gran Bretagna, quasi contemporaneamente a Langevin, anche il fisico Robert William Boyle sviluppò un dispositivo piezoelettrico al quarzo, denominato ASDIC, per la rilevazione dei sommergibili.

Fig. 3. Trasduttore risonante a sandwich di quarzo progettato da Langevin, aperto per mostrare il mosaico di lamine di quarzo interposto tra due piastre di acciaio. Esemplare appartenuto alla Marina francese, ora esposto all’ESPCI di Parigi. [Fonte: Physics Today, 75, 2022. © 2022 AIP Publishing. Riprodotta con autorizzazione per uso non commerciale]. https://doi.org/10.1063/PT.3.5122.

3. Tra le due guerre

Negli anni tra Prima e Seconda Guerra Mondiale si andò sviluppando uno straordinario e multiforme interesse per gli ultrasuoni. In ambito accademico si approfondì la conoscenza della fisica delle onde ultrasonore e delle leggi che ne regolano l’interazione con la materia. Come alternativa al quarzo, che rimase la sorgente più diffusa di ultrasuoni, furono sviluppati trasduttori magnetostrittivi a base di leghe nichel-ferro capaci di vibrare sotto l’azione di un campo magnetico oscillante. Si esplorarono gli effetti degli ultrasuoni sulle reazioni chimiche e in campo biologico (azioni su cellule, tessuti, e microrganismi). In campo medico, venne inaugurata la ultrasuonoterapia che conobbe rapida e ampia diffusione nel tentativo di curare le malattie più diverse. Ma i massimi progressi si ottennero nel settore della rilevazione subacquea, migliorando la sicurezza della navigazione e rivoluzionando l’esplorazione dei fondali marini. Risalgono a quegli anni anche i primi tentativi di usare ultrasuoni per valutare l’integrità di materiali metallici, che all’epoca veniva verificata mediante raggi X ad alta intensità.

Cosa c’è sotto? Le “diagnosi” subacquee con echi ultrasonori

Negli anni Venti, il “Sondeur Ultrasonore” Langevin-Florisson, sviluppato dalla francese SCAM, inaugurò l’uso di echi ultrasonori per misurare la profondità del mare e rilevare ostacoli sommersi. Fu installato su navi civili e militari. L’emissione ultrasonora consisteva in treni d’onda della durata di un millesimo di secondo, intervallati da brevi pause per consentire la ricezione dell’eco. L’apparecchio era dotato di un “indicatore ottico”: all’invio dell’impulso, un punto luminoso si muoveva lungo una piastra di vetro verticale graduata in metri; il ritorno dell’eco ne provocava una deflessione laterale, indicando la profondità in quel momento. Fu introdotta anche una visualizzazione ottica continua, che permetteva di seguire l’andamento degli echi durante la navigazione, offrendo un monitoraggio continuo della profondità. Prodotto a partire dal 1930, l’“Echosounder” della britannica Henry Hughes & Son rappresentò un progresso significativo per l’esplorazione subacquea. Utilizzava un trasduttore a magnetostrizione che, operando alla propria frequenza di risonanza di circa 16.000 vibrazioni al secondo (poco al di sotto della soglia convenzionale degli ultrasuoni, fissata a 20.000 Hz), emetteva un fascio piuttosto largo. Questa frequenza era circa la metà di quella emessa dal Sondeur Ultrasonore Langevin-Florisson al quarzo (tra 30.000 e 40.000 vibrazioni al secondo). Il sistema offriva una maggiore penetrazione in acqua e dunque la possibilità di esplorare a elevate profondità. Un oscillografo con stilo scrivente su carta in movimento permetteva la registrazione continua degli echi (ecogramma), fornendo una rappresentazione permanente del profilo del fondale marino anziché limitarsi a misurazioni puntuali di profondità. Diverse spedizioni britanniche e nordamericane adottarono questa tecnologia per mappare aree inesplorate di oceani e grandi laghi. La registrazione degli echi provenienti dai fondali si rivelò essenziale anche per la posa dei cavi telegrafici sottomarini e per la ricerca di relitti sommersi. Nel 1935 un echosounder Henry Hughes installato a bordo della nave Orphir localizzò il relitto del Lusitania a 87 metri di profondità. Nel corso di rilievi subacquei capitava talvolta di registrare un misterioso “doppio fondo” tra la nave scandagliatrice e il vero fondale. Il fatto che lo strato superiore di echi salisse e scendesse fornì un chiaro indizio sulla sua reale natura: banchi di pesci in movimento. Furono queste osservazioni ad aprire la strada alla vasta applicazione della tecnica di riflessione ultrasonora nel settore della pesca.

Cosa c’è dentro? La “diagnosi” nei materiali con ultrasuoni per trasmissione

L’affermazione degli ultrasuoni come strumento di ricognizione subacquea stimolò l’interesse per il loro impiego anche in altri contesti “diagnostici”: l’analisi di pezzi metallici alla ricerca di difetti strutturali. Tuttavia, diversamente dalle grandi distanze implicate nelle rilevazioni marine, si trattava in questo caso di esplorare piccoli spessori, e le risorse tecnologiche dell’epoca non consentivano di rilevare tempi ultrabrevi di ritorno degli echi. Scelta obbligata era la tecnica di trasmissione ultrasonora. Nel 1929, il fisico sovietico Sergei Sokolov (Fig. 1F), considerato il padre dell’ultrasonic testing, dimostrò che gli ultrasuoni possono attraversare i materiali metallici senza assorbimento evidente, e ne propose l’impiego per individuare difetti al loro interno [9]. In uno dei sistemi da lui ideati, il campione veniva immerso in acqua e attraversato da un fascio ultrasonoro emesso da un trasduttore al quarzo sottostante. Gli ultrasuoni, dopo averlo attraversato, raggiungevano la superficie del liquido sovrastante, inducendone la vibrazione. Un fascio di luce esterno, diretto su questa superficie vibrante, veniva deviato proiettando su uno schermo rivelatore un’alternanza di bande chiare e scure. Un difetto nel materiale interrompeva la trasmissione ultrasonora in una determinata area, impedendo la vibrazione della superficie del liquido e la conseguente diffrazione della luce [10]. Un certo progresso nella ricerca di difetti nei materiali fu segnato dall’ingegnere tedesco Otto Mühlhäuser. Il suo sistema, brevettato nel 1931, utilizzava due trasduttori al quarzo: uno per emettere onde ultrasonore attraverso il materiale in esame, l’altro, posizionato sul lato opposto e collegato a un milliamperometro, per ricevere le onde trasmesse. La presenza di un difetto all’interno del materiale causava riduzione o interruzione del segnale ricevuto dal secondo trasduttore, indicando imperfezioni o discontinuità [11]. Il sistema non trovò importanti applicazioni industriali. Un ulteriore contributo all’analisi dei materiali mediante trasmissione ultrasonora fu fornito dal fisico tedesco Robert Pohlman, che nel 1939 ideò un dispositivo capace di convertire le attenuazioni del fascio ultrasonoro causate da discontinuità interne nel materiale in variazioni di intensità luminosa direttamente osservabili [12]. Il sistema, noto in seguito come cella di Pohlman, offriva un mezzo per “visualizzare” l’onda ultrasonora trasmessa, anticipando in forma embrionale l’imaging industriale.

4. Iperfonografo, ultrasonocardiogramma, ultrasonoscopio

La “svolta” fu segnata proprio dal tentativo di usare gli ultrasuoni per esplorare l’interno di strutture metalliche con tecnica di trasmissione. Negli anni Quaranta nacquero in Europa i primi tentativi di applicare lo stesso principio all’esplorazione del corpo umano. Tuttavia, i risultati si rivelarono inconcludenti. Una prima ragione fu la mancanza di un approccio multidisciplinare: le prove erano condotte in autonomia da medici dotati di qualche competenza tecnica, ma senza il supporto diretto di figure ingegneristiche. Una seconda ragione, connessa alla prima, risiedeva nei limiti tecnici delle apparecchiature allestite. Una terza, nella natura dei tessuti biologici che – a differenza dei metalli – costituiscono mezzi di propagazione del suono fortemente disomogenei e dalle configurazioni geometriche molto complesse. Il neurologo austriaco Karl Dussik (Fig. 1G), che nel 1942 presentò la “iperfonografia” del cervello, è considerato il primo medico ad aver tentato l’uso degli ultrasuoni a scopo diagnostico. L’apparecchiatura da lui realizzata mirava a valutare la trasmissione di un fascio ultrasonoro attraverso il cranio. Due trasduttori al quarzo, uno emittente (0,8-1,5 MHz) e uno ricevente, erano accostati alle ossa parietali opposte del paziente, coricato supino con la testa parzialmente immersa in acqua per migliorare l’accoppiamento acustico. Il trasduttore ricevente era collegato a una lampadina la cui luminosità variava in base all’intensità del segnale ricevuto, impressionando in misura corrispondente una lastra fotografica. Dussik riteneva che, nell’attraversare le cavità liquide dei ventricoli cerebrali, gli ultrasuoni subissero minore attenuazione rispetto al tessuto circostante, raggiungendo quindi il ricevitore con maggiore intensità. Ne sarebbe derivata, sulla lastra, una rappresentazione dei ventricoli cerebrali come aree scure. Poiché i ventricoli vengono facilmente deformati da tumori cerebrali adiacenti, la distorsione della loro immagine poteva indicare una patologia [13]. Nel 1952 Dussik riferirà di aver esaminato fino ad allora 300 pazienti, “con risultati favorevoli” [14]. Ma proprio nello stesso anno arriverà il colpo di scena: ricercatori della tedesca Siemens dimostrarono che le zone scure ottenute da Dussik non rappresentavano i ventricoli cerebrali, bensì erano artefatti dovuti alla riflessione e rifrazione degli ultrasuoni contro le ossa craniche, e che immagini simili erano ottenibili in sostanza anche da un cranio privo del cervello [15]. Fu la pietra tombale sulla iperfonografia cerebrale. Nel 1947, il fisiologo tedesco Wolf-Dieter Keidel (Fig. 1H), Università di Erlangen, fu il primo a tentare l’applicazione degli ultrasuoni allo studio del cuore. Il suo sistema si basava sulla trasmissione ultrasonora attraverso il torace per documentare le cicliche variazioni del volume cardiaco durante le fasi di sistole e diastole. Un trasduttore magnetostrittivo emetteva ultrasuoni (57,5 kHz) dalla parete toracica posteriore mentre un trasduttore al quarzo, posizionato su quella anteriore, ne rilevava la propagazione. Le variazioni di intensità del segnale ricevuto, connesse ai cambiamenti di volume del cuore, venivano registrate su carta mobile, ottenendo un “ultrasonocardiogramma” [16]. La tecnica non ebbe alcun seguito (diverso destino attenderà il primo eco-cardiogramma, ottenuto da Inge Edler e Hellmuth Hertz nel 1953). Il medico francese André Dénier pubblicò nel 1946 un lavoro teorico sulla trasmissione ultrasonora, proponendo la “Ultrasonoscopia”. Nelle sue intenzioni sarebbe servita ad esplorare gli organi interni e a rilevare masse patologiche polmonari e addominali [17]. Il sistema da lui descritto prevedeva due trasduttori al quarzo e un oscilloscopio per visualizzare le differenze tra i segnali ultrasonori emessi e quelli trasmessi attraverso gli organi; queste differenze venivano tracciate sullo schermo sotto forma di segnali sinusoidali (figure di Lissajous). Non fece seguito alcuno sviluppo.

5. 1949: subito prima dell’inizio della “storia”

Dal 2 al 4 maggio 1949 si tenne ad Erlangen (Germania) un evento di particolare rilievo: il primo congresso internazionale dedicato a “Gli Ultrasuoni in Medicina” [18]. 321 i partecipanti, da sette Paesi europei. Settanta relazioni trattavano gli effetti biologici e terapeutici degli ultrasuoni. Solo due erano di tipo diagnostico: quelle presentate da Dussik e da Keidel che riferirono le loro esperienze con la tecnica di trasmissione (v. sopra). Nello stesso anno, dall’altra parte dell’oceano, tre coppie di pionieri – senza contatto tra loro e ciascuna formata da un medico e da un esperto in fisica o in elettronica – comunicavano i primi risultati diagnostici raggiunti mediante riflessione ultrasonora. L’impulso provenne dai progressi intervenuti nell’analisi dei materiali durante la Seconda Guerra Mondiale, e resi pubblici solo dopo la fine del conflitto. Dai metalli ai tessuti biologici: si ripeteva dunque lo schema che a suo tempo aveva portato ai tentativi diagnostici con la tecnica di trasmissione, ma in un contesto tecnologico radicalmente mutato sotto la spinta delle esigenze belliche. Lo sviluppo del RADAR da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna fu decisivo: la velocità elevatissima delle onde radio in aria (300.000 km/sec) rendeva brevissimi i tempi di ritorno degli echi riflessi da bersagli aerei. La loro rilevazione fu resa possibile dalla adozione di circuiti elettronici veloci e dal perfezionamento dell’oscilloscopio. L’applicazione di analoghe tecnologie al campo degli ultrasuoni – che rispetto alle onde elettromagnetiche viaggiano a velocità di gran lunga inferiori in qualunque materiale – permise di misurare con precisione distanze minime, segnando un cambio di paradigma nell’analisi non distruttiva dei materiali: l’eco riflessa da difetti interni, o dalla superficie limite, consentiva valutazioni di integrità e misure di spessore. Tra i vantaggi, rispetto alla tecnica per trasmissione, non vi era più la necessità di accedere al pezzo da lati opposti, cosa non sempre praticabile, e si cominciarono a realizzare dispositivi di dimensioni contenute, adatti all’uso sul campo. La nuova tecnologia rimase inizialmente confinata all’ambito militare (per scafi navali, corazze di carri armati). Nel settembre 1945, l’ingegnere americano Floyd Firestone (Fig. 1I), Università del Michigan – che aveva brevettato il “Supersonic Reflectoscope” già nel 1942 – ne pubblicò la prima descrizione tecnica [19]. Il dispositivo, destinato all’uso industriale, fu commercializzato negli Stati Uniti da Sperry Products. Utilizzava un unico trasduttore al quarzo che operava a 5 MHz, emettendo impulsi di 1 microsecondo (5 onde per impulso), 60 volte al secondo. Gli echi riflessi tra un impulso e l’altro venivano
visualizzati sullo schermo fluorescente di un oscilloscopio in “modulazione di ampiezza” (A-mode): ogni eco appariva come un picco verticale, di ampiezza proporzionale all’intensità del segnale; la posizione del picco lungo la linea di base in movimento (asse dei tempi) ne indicava la profondità di origine [20]. In Inghilterra, l’ingegnere Donald Sproule sviluppò durante il periodo bellico il “Supersonic Flaw Detector”, reso pubblico nel 1946 [21]. Commercializzato per l’uso civile dalla Henry Hughes & Son, impiegava due trasduttori al quarzo, uno per l’emissione e l’altro per la ricezione, posti entrambi sullo stesso lato del pezzo metallico da esaminare. Prima del 1950, rilevatori di difetti a impulso-eco furono realizzati anche in Germania e dal fisico Rokuro Uchida in Giappone, dove l’uso di circuiti elettronici era stato interdetto fino al 1948.

George Döring Ludwig

Alla fine della guerra, George Ludwig (Fig. 1L) prestava servizio come ufficiale medico presso il Naval Medical Research Institute di Bethesda, nel Maryland. Fu il chirurgo militare Charles Kirby, suo collega nella stessa struttura, a suggerirgli di verificare se la tecnologia ad eco usata per analizzare i materiali industriali si prestasse a rilevare la presenza di calcoli biliari. Ludwig progettò la sperimentazione con il fisico Francis Struthers. Era noto che un’eco si genera solo quando un’onda ultrasonora attraversa materiali con diversa impedenza acustica, ossia con differente resistenza al passaggio del suono. Dunque, formazioni litiasiche avrebbero potuto produrre echi distinti e rilevabili solo se la loro impedenza acustica fosse stata sufficientemente diversa da quella dei tessuti corporei circostanti, ma al riguardo non vi erano dati in letteratura. Poiché l’impedenza acustica di un materiale è pari al prodotto della sua densità per la velocità del suono attraverso di esso, Ludwig e Struthers determinarono questi due parametri su campioni di vari organi di cani e suini, e rispettivamente in una serie di calcoli biliari umani ottenuti come materiale operatorio (per inciso, nei tessuti molli fu misurata una velocità media del suono di 1540 m/sec, valore ancora oggi standard in ecografia). Le misurazioni di impedenza indicarono nei tessuti un valore medio di 1,6 × 105 (g/cm2/sec), mentre per i calcoli fu osservato un range tra 1,15 e 2,42 × 105 (g/cm2/sec): una differenza che lasciava intravedere la possibilità di rilevarli mediante echi ultrasonori. Per verificarlo, Ludwig inserì due calcoli umani di 7 e 10 millimetri nella colecisti di un cane di grossa taglia. Una volta guarita la ferita chirurgica, utilizzando un metalloscopio al quarzo prodotto dalla Sperry per controlli industriali (2.5 MHz), Ludwig riuscì a rilevare sullo schermo dell’oscilloscopio gli echi dei calcoli, visualizzati in A-mode come due picchi verticali. Si trattava della prima diagnosi ecografica eseguita su un organismo vivente, sia pure animale. L’intera ricerca fu declassificata solo nel giugno 1949 [22], e divulgata l’anno seguente su un magazine tecnico-industriale [23]. Sebbene il compito di Ludwig fosse facilitato dal sapere cosa e dove cercare, nel suo resoconto egli osservava che “segnali più piccoli provenienti dall’area rendono l’interpretazione piuttosto difficile”. Fu probabilmente a causa di queste difficoltà discriminatorie che Ludwig decise di non sviluppare ulteriormente la tecnica per riflessione, orientandosi invece verso la trasmissione ultrasonora. Nel 1949 si trasferì al Massachusetts General Hospital di Boston collaborando con ricercatori del MIT alla diagnosi dei tumori cerebrali mediante trasmissione trans-cranica degli ultrasuoni, secondo l’approccio ideato anni prima da Dussik. Senonché, come ricordato, nel 1952 uno studio “tranchant” di ricercatori tedeschi pose definitivamente fine a questo filone di ricerca.

Jéronimo Guastavino

In Argentina, contemporaneamente a Ludwig, anche il medico Jéronimo Guastavino (Fig. 1M) e Rogelio McLoughlin, ingegnere presso la filiale locale della società elettronica americana RCA, si interessavano alla diagnosi mediante echi ultrasonori. Anziché ricorrere a rilevatori di difetti industriali, già disponibili in commercio, allestirono una propria apparecchiatura assemblando i componenti necessari: un trasduttore al quarzo per l’emissione ultrasonora e la ricezione degli echi, l’oscillatore di impulsi elettrici ad alta frequenza, un’unità di amplificazione del segnale, un oscilloscopio con presentazione A-mode e un circuito di sincronizzazione. Nell’agosto 1949 essi pubblicarono i risultati ottenuti con il loro “LUPAM” (Localizador Ultrasonoscópico Para Aplicaciones Médicas) [24]. Impiegando la frequenza di 1.5 MHz, furono rilevati echi da un calcolo che era stato inserito all’interno di un rene escisso. Fu anche riferito di echi provenienti – in vivo – dalle ossa dell’avambraccio e dalle pareti cardiache. Nel loro lavoro Guastavino e McLoughlin speculavano inoltre sulla possibilità di migliorare l’efficacia diagnostica superando la semplice presentazione A-mode degli echi riflessi. A tal proposito richiamavano quanto avvenuto nel campo del RADAR, dove la visualizzazione degli echi aveva compiuto nel frattempo un salto qualitativo passando dalla traccia A-mode alla presentazione PPI (Plan Position Indicator), capace di restituire una immagine bidimensionale dell’area esplorata: concetto che anticipava in nuce – il principio dell’imaging ecografico B-mode. È un dato di fatto, tuttavia, che a parte qualche sporadica comunicazione riguardo al LUPAM, da allora si perdono le tracce dei due ricercatori. Di Guastavino si sa soltanto che divenne un cardiochirurgo di una certa fama in Argentina.

Fig. 4. Gli echi A-mode che Wild e Neal rilevarono da tre tratti sovrapposti di parete di intestino tenue di cane. Gli intervalli tra i picchi sulla linea di base (visibile come linea tratteggiata orizzontale al centro della figura) indicano i relativi spessori [da Ref. 26, © Elsevier. Reproduced under STM Permissions Guidelines with proper acknowledgment].

John Julian Wild

L’inglese John Wild (Fig. 1N) dimostrò fin da giovane uno spirito inventivo. All’età di 14 anni brevettò una valvola automatica per distribuire uniformemente acqua calda e fredda durante il riempimento di una vasca da bagno. Durante la guerra, a causa della carenza di benzina, realizzò un impianto a gas in miniatura alimentato a carbone, montato sul sidecar di una vecchia motocicletta Harley-Davidson, il cui motore era stato modificato per funzionare con il monossido di carbonio prodotto dal dispositivo. Laureatosi in Medicina nel 1942, Wild si interessò ai quadri di distensione intestinale acuta (ileo paralitico), spesso fatali, causati dall’onda d’urto dei bombardamenti aerei tedeschi su Londra. Ipotizzò che la diagnosi potesse giovarsi della misurazione dello spessore delle pareti intestinali. Pare sia stato Donald Sproule – già ricordato come sviluppatore del “Supersonic Flaw Detector” e con cui Wild era entrato in contatto – a suggerirgli di usare gli ultrasuoni per questo scopo. Tuttavia, gli strumenti impiegati per i test non distruttivi nei metalli operavano a frequenze troppo basse (tipicamente 1-2,5 MHz) per garantire il dettaglio richiesto per misurare le pareti intestinali. Sarebbero occorse brevissime lunghezze d’onda, ottenibili solo con frequenze più elevate. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1946, Wild continuò ad occuparsi del tema della distensione acuta dell’intestino presso il Dipartimento di Chirurgia dell’Università del Minnesota, a Minneapolis. Caso volle che la vicina base aero-navale disponesse di un apparato ad ultrasuoni usato in tempo di guerra per addestrare i piloti di aereo all’uso del RADAR. Il dispositivo, basato su un trasduttore al quarzo, generava un fascio ultrasonoro che simulava quello – ben più veloce – di un radar aereo. I piloti si esercitavano a “volare” sopra una vasca d’acqua che copriva una mappa in scala di territori nemici, interpretando gli echi di ritorno sullo schermo di un oscilloscopio A-mode. Fu per Wild una fortunata coincidenza il fatto che il sistema operasse a una frequenza molto elevata, ideale per i suoi studi di misurazione dello spessore del tessuto intestinale. Oltre all’accesso alla apparecchiatura, coperta ancora da segretezza militare, Wild ottenne la preziosa collaborazione tecnica dell’ingegnere Donald Neal, in servizio presso la base. Fu così preparato un contenitore d’acqua alla cui base era fissato il trasduttore al quarzo. Quest’ultimo operava alla frequenza di 15 MHz, e produceva impulsi della durata di mezzo microsecondo (7,5 onde per impulso). Una sottile membrana di gomma ricopriva l’apertura del contenitore, e sopra di essa vennero disposti – uno sull’altro – tre brevi tratti di parete intestinale, di diverso spessore, prelevati dal tenue di un cane appena sacrificato. Come risultato, Wild e Neal osservarono sullo schermo dell’oscilloscopio i picchi A-mode degli echi riflessi dalle interfacce tra i campioni: ognuno chiaramente identificabile; gli intervalli tra i picchi sulla linea di base rappresentavano lo spessore di ciascun campione (Fig. 4). Era stato scoperto che impulsi ultrasonori potevano venire riflessi da tessuti viscerali, e non solo da calcoli. Non fu meno cruciale quanto emerse dall’esame di un pezzo operatorio fresco di stomaco umano contenente un’ulcera carcinomatosa: gli echi provenienti dal tumore differivano da quelli del tessuto normale nello stesso campione. I tracciati A-mode mostravano infatti, in corrispondenza del tumore, un allargamento dell’intervallo tra gli echi sulla linea di base, attribuito a un rallentamento della propagazione ultrasonora per maggiore densità tissutale. Inoltre, dalla stessa area provenivano numerosi echi aggiuntivi, indizio della presenza di molteplici superfici riflettenti all’interno del tessuto neoplastico.

Fig. 5. Pezzo operatorio di parete gastrica con ulcera carcinomatosa. Le lettere (A-E) indicano i punti di rilevazione degli echi A-mode riportati nei riquadri. Si osserva un progressivo ampliamento dell’intervallo tra gli echi, che aumenta dalla zona normale (A) a quelle infiltrate e tumorali (B-E), indicativo di un rallentamento nella propagazione ultrasonora [da Ref. 26, © 1950 Elsevier. Reproduced under STM Permissions Guidelines with proper acknowledgment].

Non meno rilevante, lo stesso pattern si riscontrava anche in zone adiacenti al tumore – apparentemente normali sia all’ispezione che alla palpazione – suggerendo una possibile infiltrazione neoplastica (Fig. 5). Come corollario di queste ricerche, Wild abbozzò lo schema di un trasduttore ecografico da inserire nel tubo gastroenterico per esplorarne dall’interno la parete in vivo: un’applicazione che anticipava di decenni l’avvento della eco-endoscopia. Nel 1949, questi risultati furono formalizzati in un report interno all’Università del Minnesota [25] e sottoposti il 15 novembre a Surgery, che li pubblicò tre mesi più tardi [26]. In chiusura dell’articolo, Wild commentava come “l’impiego degli ultrasuoni faceva sperare di poter rilevare tumori molto prima di qualunque metodo radiologico”. Non si pecca di enfasi affermando che stava nascendo l’ecografia medica. Concedendoci un rapido blitz nei primissimi anni Cinquanta – appena oltre il limite temporale di questo lavoro – fu ancora Wild, nel 1951, a firmare il primo studio in assoluto sull’applicazione diagnostica degli echi ultrasonori in campo umano in vivo, descrivendo differenze tra i tracciati A-mode di neoformazioni benigne e maligne in donne con tumefazioni mammarie clinicamente palpabili e sottoposte a biopsia. Per l’esame fu realizzato un trasduttore di pochi centimetri “che può essere tenuto in mano e spostato sopra la pelle come la testina di uno stetoscopio” [27]. L’anno successivo presentò le prime, seppur rudimentali, immagini bi-dimensionali di tumori nella storia della ecografia [28]. Il decennio che si apriva vedrà apporti decisivi da parte di pionieri in varie parti del mondo – dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dalla Svezia al Giappone – compreso ancora Wild anche se il suo contributo fu all’epoca largamente ignorato, soprattutto dall’ambiente accademico americano. Uomo di primati, Wild comparirà anche nel “Guinness Book of Records” per il super-risarcimento di 16,8 milioni di dollari (poi ridotto) che gli fu riconosciuto nel 1972 dal tribunale del Minnesota per diffamazione e interferenza professionale [29]. Come ricordato in un necrologio, John Wild fu uomo dal carattere difficile, spesso in conflitto con colleghi e istituzioni [30]. Ma resta, indiscussa, la sua figura di “padre” dell’ecografia medica, a cui far risalire legittimamente l’inizio della “storia”.

Tab. 1. Modalità di imaging con ultrasuoni.

Tecnologia

Descrizione sintetica

Stato

Ecografia B-mode

Immagini bidimensionali di strutture corporee

Standard clinico

Elastografia

Misura la rigidità dei tessuti

Uso clinico consolidato

Ecografia con mezzo di contrasto (CEUS)

Microbolle per migliorare la visualizzazione vascolare e caratterizzare lesioni

Uso clinico consolidato

Ecografia Doppler (Color/Power)

Visualizza e quantifica il flusso ematico

Uso clinico consolidato

Ecografia 3D/4D

Immagini volumetriche dei tessuti

Uso clinico consolidato

Ecografia multiparametrica

Combina B-mode, Doppler, elastografia, CEUS

Uso clinico avanzato

Fusion Imaging

Fusione di immagini ecografiche con TC/RM/PET

Uso clinico avanzato

Ecografia ad alta frequenza

Imaging superficiale ad altissima risoluzione (30-100 MHz)

Uso clinico specialistico

Ecografia portatile IA-assistita

Strumenti tascabili con analisi e diagnosi automatica

Uso clinico emergente

Ecografia ultrafast (UFFI)

Acquisizione di migliaia di immagini/sec. per imaging dinamico e funzionale

Uso clinico emergente

Vector flow imaging (VFI)

Analisi multidirezionale del flusso sanguigno

Uso clinico emergente

Ecografia funzionale cerebrale (fUS)

Analisi del flusso sanguigno cerebrale ad alta sensibilità

Uso clinico emergente

Ecografia molecolare

Microbolle mirate a target molecolari per imaging a livello cellulare

Sperimentale avanzato

Ecografia quantitativa (QUS)

Analisi quantitativa delle caratteristiche acustiche dei tessuti

Sperimentale avanzato

Ecografia ad apertura sintetica (SAU)

Immagini ad alta risoluzione tramite elaborazione avanzata dei segnali

Sperimentale avanzato

Ecografia acusto-ottica (AOI)

Combina ultrasuoni e luce laser per imaging ad altissima risoluzione

Sperimentale iniziale

Ecografia foto-acustica (PAI)

Ultrasuoni generati dai tessuti tramite impulsi laser per imaging ad alto contrasto

Sperimentale avanzato

Epilogo

La Tab. 1 offre una panoramica dello sviluppo attuale dell’imaging ultrasonoro, dalle applicazioni routinarie a quelle ancora in fase di studio. A così tanti decenni dalla sua nascita, l’ecografia non solo continua ad evolversi, ma lo fa con un ritmo sorprendente. Benché ogni previsione sul futuro porti con sé un margine di incertezza, è lecito ipotizzare che entro il prossimo decennio un tipo di tabella simile subirà modifiche significative: nuove applicazioni potrebbero affacciarsi, altre avanzare oltre l’attuale fase sperimentale. È altresì plausibile che l’implementazione di algoritmi di IA, anch’essa in continua evoluzione, avrà un impatto crescente. Per dirla con una immagine, si tratta di potenziare l’ecografia – nata dal quarzo, che è biossido di silicio – con la capacità del silicio monocristallino di plasmare algoritmi intelligenti. Ma l’integrazione della IA nella diagnostica ecografica presenta sfide specifiche rispetto ad altre modalità di imaging come TC e RM: l’ecografia è un esame in tempo reale, fortemente dipendente dall’operatore e dalla qualità dell’acquisizione delle immagini, che può variare sensibilmente da caso a caso e rende complessa l’applicazione uniforme di algoritmi di IA. Per quanto riguarda il quarzo, il protagonista della nostra preistoria, intorno alla metà degli anni Cinquanta andò in pensione, sostituito da materiali piezoelettrici più performanti. In pensione, intendiamoci, dal campo ecografico: perché – a parte gli snob che preferiscono orologi a movimento meccanico – quasi tutti nel mondo portano al polso il quarzo piezoelettrico di Curie.

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1 Tutte le immagini sono pubblicate a colori nell’edizione online degli Annales.