Marsili schiavo dei Turchi: una storia di paradigmi e di eccezioni
Giovanni Ricci
Università degli Studi di Ferrara
Contributo presentato da Walter Tega
Abstract
In many folkloric and religious traditions there is the phenomenon of the dead returning. The French noun revenant literally expresses this phenomenon. “Perturbing in the highest degree”, as Sigmund Freud put it, means that the dead person threatens the equilibrium that has been reconstituted after his disappearance. The Christian slaves of the Turks were a sort of dead. When there was no more news of them, their legal death was certified. In any case, captivity under the infidels was equivalent to a religious and moral death, either through interruption of Christian practice or formal apostasy. But just like the dead, slaves sometimes returned. A slave of the Turks, Count Luigi Ferdinando Marsili, was also officially a dead man, although his trail was never completely lost. High-ranking personalities took an interest in his fate, and the same masters took care of external contacts while waiting for the ransom of this special slave/dead man. Marsili’s return to Bologna, while respecting the usual paradigms of such events, was also, therefore, special in the sense that it showed layers of reality usually concealed. In an already very multifaceted biography, this is a further element of originality that is not without repercussions on Marsili’s scientific image itself.
Keywords
Marsili, Turks, Slavery, Revenant, Bologna.
© Giovanni Ricci, 2023 / Doi: 10.30682/annalesm2301i
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1. In molte tradizioni folcloriche e religiose sussiste il fenomeno del morto che ritorna.1 Il sostantivo francese revenant, di cui manca l’equivalente in italiano, esprime alla lettera questo fenomeno.2 A volte il morto, o ritenuto tale, ritorna fisicamente, come nel caso famoso di Martin Guerre nella Francia del Cinquecento.3 «Perturbante in sommo grado», per dirlo con Sigmund Freud,4 il morto minaccia l’equilibrio che si è ricostituito dopo la sua scomparsa. «Si les morts se mettent à revenir, les existences individuelles comme l’ordre social sont bouleversés»: così ragiona Balzac attorno al caso del Colonel Chabert, un esponente illustre della categoria.5
Gli schiavi cristiani dei Turchi erano una sorta di morti. Quando non se ne avevano più notizie, ne veniva certificata la morte legale. In ogni caso, la prigionia presso gli infedeli equivaleva a una morte religiosa e morale, per interruzione della pratica cristiana o per apostasia formale. L’assimilazione della schiavitù alla morte era dichiarata esplicitamente. Così parlava un notaio ferrarese intento a rogare un affrancamento nel 1449: «Non c’è nulla di peggio della schiavitù che è cosa simile alla morte e viene considerata una morte civile».6 Ma appunto, come i morti, gli schiavi talora ritornavano.
Schiavo dei Turchi, anche il conte Luigi Ferdinando Marsili era tecnicamente un morto, pur non essendosi mai perse del tutto le sue tracce. Personaggi di alto rango si interessarono alla sua sorte, e gli stessi padroni curarono i contatti esterni nell’attesa del riscatto di questo schiavo/morto speciale. E così il ritorno di Marsili a Bologna, se da un lato rispettò i paradigmi usuali di simili vicende, dall’altro fu speciale, nel senso che mise a nudo strati di realtà solitamente celati. In una biografia già molto sfaccettata, questo è un ulteriore elemento di originalità che non resta privo di ricadute sulla stessa immagine scientifica di Marsili.
2. Le storie di schiavitù dipendono dalle carte prodotte dagli ordini religiosi redentori o dalle confraternite del riscatto. In un quadro simile dominano gli intenti apologetici e gli stereotipi etnici, religiosi, letterari persino.7 È maggiore l’accuratezza delle notizie sui rinnegati o sui redenti in odore di apostasia che venivano affidati all’Inquisizione, ma questo ora non ci riguarda.
Nel caso di Marsili, la fonte principale è il Ragguaglio lasciato dal protagonista stesso. Inaffidabile per antonomasia, un testo simile richiede di essere trattato con gli strumenti della filologia, della psicologia, della comparazione. Lo scopo è di costringere il narratore a rivelare anche ciò che egli non vorrebbe. Si affaccia qui un principio di metodo così importante che preferiamo ascoltarlo dalla voce di Marc Bloch: «Persino nelle testimonianze più decisamente volontarie, ciò che il testo ci dice non costituisce più l’oggetto preferito della nostra attenzione […] Nella nostra inevitabile subordinazione al passato […] riusciamo tuttavia a saperne assai di più di quanto esso aveva creduto bene di farci conoscere».8
Cominciamo dunque con un riassunto di ciò che Marsili «aveva creduto bene di farci conoscere». Nel 1679-80 egli si trovava a Costantinopoli, al seguito bailo veneziano Pietro Civran. Dopo altri viaggi, nel 1682 prese servizio nell’esercito asburgico che presidiava il confine ungherese, fin quando non iniziò la spedizione turca contro Vienna. Il 3 luglio 1683 fu catturato da cavalieri tartari nel corso di una scaramuccia. Ai carcerieri Marsili celò la sua identità, ma fu presto smascherato. Il suo primo padrone fu Ahmed, pascià di Temesvár, che lo incaricò di preparare e distribuire il caffè nel suo reparto. Su questa nuova «bevanda asiatica» Marsili scriverà poi un trattato basato su note del letterato Ḥusayn Efendi (Hezārfenn) che egli aveva conosciuto a Costantinopoli nel 16799 – ecco qui un bell’esempio di scambio culturale.10 Malgrado un tentativo di fuga, Marsili seguì forzatamente la ritirata ottomana e poi fu ceduto a due fratelli bosniaci, Omar e «Gelillo» (Jalil?)
Le trattative per il riscatto del conte si conclusero nella primavera del 1684 grazie alla mediazione del Civran. A Sarajevo i due bosniaci lo sferrarono e gli consegnarono un cavallo su cui, racconta Marsili, «più nudo che vestito montai col solo equipaggio delle mie catene». Sulla via del ritorno, Marsili portò le sue catene a Spalato, Zara e Venezia, prima di entrare solennemente a Bologna. Di qui ripartì per Loreto, una classica meta votiva; infine raggiunse la Santissima Annunziata a Firenze, il venerato santuario mariano, dove – dichiara – «lasciai appese le mie catene». Negli anni successivi Marsili valorizzò a Bologna il simbolo delle catene: sollecitò che gli schiavi redenti intervenissero in pubblico con catenelle sull’abito; fissò una catena sulla cassetta per le elemosine agli schiavi posta nell’Istituto delle Scienze; si presentò alle processioni con una catena sulle spalle. Le catene vere intanto stavano a Firenze; così almeno sembrerebbe, sulla base della narrazione che abbiamo seguito.11
3. Adesso cerchiamo di capire se tutto fila liscio.
Il tentativo di spacciarsi per una persona qualunque era comune. I prigionieri di rango speravano così di abbassare il costo di un riscatto che poteva mandare in rovina le famiglie d’origine. Con Marsili i Tartari non ci cascarono, d’altronde bastava dare un’occhiata al corpo, alle callosità delle mani o dei piedi, per valutare la qualità di un prigioniero. Più tardi, i tentativi di fuga nel marasma della ritirata turca da Vienna rispettano la regola di condotta dei giovani schiavi, come pure le punizioni subite. Non conosciamo i dettagli delle trattative per il riscatto, ma l’ex bailo Civran avrà saputo a chi rivolgersi fra i vari intermediari disponibili ai due lati della frontiera.12 Anche il dono delle catene al momento della liberazione rientra nei paradigmi. Erano gli schiavi stessi a richiederlo, per due ragioni: le catene certificavano la durezza del trattamento e quindi l’assenza di apostasia, inoltre fungevano da ex-voto. Fin qui nulla da eccepire; ma d’ora in avanti la situazione cambia.
Nel caso di Marsili, le catene correggevano l’impressione di una prigionia troppo dolce nel ruolo di caffettiere. Ma è ben vero che, una volta rivelato il suo rango, il valore di riscatto dello schiavo superava il suo valore d’uso, non bisognava sciupare la merce preziosa. Marsili dice di aver depositate le catene a Firenze – dove non se ne ha più traccia; eppure, nelle collezioni dell’Università di Bologna si conservano catene che un’iscrizione ottocentesca afferma essere di Marsili, da lui stesso donate. È una contraddizione bella e buona. Forse non si tratta delle catene autentiche ma delle catene (realistiche) impiegate per le comparse pubbliche del conte; oppure delle catene fissate sulla cassetta nell’Istituto delle Scienze. Incontriamo qui un punto ‒ la verità delle catene ‒ che, circoscritto solo in apparenza, pare singolarmente adatto al modo di conoscenza del paradigma indiziario.13
4. Assai poco oggettivi, gli oggetti fisici giunti dal passato sono spesso ingannevoli. Non si parla qui di truffe di tipo antiquario. Esistono trappole più sofisticate. L’antichità degli oggetti non viene intaccata, ma resta dubbia la loro intima verità, a conferma di quanto sia varia la fenomenologia del falso in storia.14
Si è detto che i redenti desideravano portare con sé le catene. Giunti in patria, se ne spogliavano pubblicamente al termine di cerimonie dal forte simbolismo religioso ‒ e dai forti significati antropologici incentrati sull’idea di (de)contaminazione.15 Molti di questi reperti ferrei sopravvivono, ma sospettiamo che non sempre siano le catene che lo schiavo aveva subito durante la cattività. È probabile che ci siano dei falsi d’epoca, fabbricati per accreditare storie di schiavitù dubbie.
L’incarico di garantire la probità dello schiavo spettava a chi l’aveva fatto liberare. Solo i più altolocati potevano fruire di mediatori privati, come nel caso di Marsili – un ex-bailo veneziano, addirittura. Se no, ci pensavano le confraternite del riscatto. Fiorenti da secoli nelle metropoli mediterranee, ne esistevano anche in città meno esposte al pericolo: per esempio, e per restare vicini al nostro personaggio, a Bologna dal 1578 o a Ferrara dal 1714.16 Il guaio è che i dati fattuali di una causa tanto giusta sfuggivano al controllo perché i redenti, come i morti, riemergevano dal nulla. Si favoleggiava di finti riscatti, di finti mediatori, di finte sferze e catene. «Talor finger ancor d’esser scampato / di mano a’ Turchi, come far si suole / e di grossa catena circondato / per le strade gabbar le gentaiuole»: così leggiamo nell’Arte della forfanteria di Giulio Cesare Croce, uscita a Bologna nel 1622. Intanto Rafaele Frianoro, nel suo trattato sui vagabondi, nominava le «longhe catene» con cui i falsi riscattati truffavano gli ingenui.17
Vere o false, le catene contrassegnavano il mondo degli schiavi liberati. Potevano essere semplici allusioni, come le strisce di seta indossate talora a Marsiglia nel XVII secolo; o come i collari di stucco presentati in corteo a Bologna nel 1722; o come le catenelle argentate esibite a Milano nel 1764.18 Ma le sedi delle attività di riscatto contenevano catene vere. Così era descritta la chiesetta della Confraternita del riscatto di Ferrara: «Vedonsi appese alle mura […] le catene con le tabelle, nomi e patria de’ schiavi cristiani liberati da’ Turchi».19 Una di queste catene fu portata due volte in corteo perché il titolare, tale Giuseppe Rovere, dovette sfilare nel 1770 e di nuovo nel 1775, per smentire chi diceva che non era uno schiavo redento ma «un ribaldo fuggiasco dalla giustizia».20 Non si capisce come una seconda esibizione di catene, potenzialmente false, riuscisse ad autenticare una storia sospetta. Comunque, la chiesetta ferrarese con le sue catene non esiste più. Invece, San Gerolamo alla Certosa di Bologna, che è succeduta alla locale Confraternita del riscatto soppressa in età napoleonica, mostra una collezione di catene accompagnate da cartigli di questo tenore: «1683. Riscatto di G.M. Ghiselli in Costantinopoli. Lire 2963».21 Ritroveremo questo personaggio.
Ad altre catene capitava di liquefarsi alla lettera. Di ritorno da Lepanto, l’ammiraglio Marcantonio Colonna sostò a Loreto, seguito dai rematori liberati che vi depositarono le loro catene.22 Il motivo devozionale dell’offerta si era sviluppato nella penisola iberica al tempo della reconquista. La chiesa di San Juan de los Reyes a Toledo è rivestita all’esterno da catene di schiavi liberati durante la guerra di Granada. Diversamente da Toledo, però, a Loreto le catene furono fuse per fabbricare le cancellate della basilica.23 Gli strumenti di tortura degli infedeli furono convertiti a gloria del proprio Dio.
5. Eppure qualche dubbio lambisce l’autenticità delle catene deposte a Loreto dopo Lepanto. Sul corpo dei rematori saranno rimasti solo frammenti, quando li liberarono a colpi d’ascia, in quell’inferno navale… Ma i dubbi si solidificano a proposito di una vicenda sviluppatasi fra Costantinopoli e Bologna nel 1683. Entra in scena quel Giovanni Maria Ghiselli che abbiamo appena nominato. Malgrado il riscatto pagato, egli fu consegnato nudo al bailo Civran – sì, ancora lui. Infatti il padrone, Mustafà Delì bey di Chio, era stato costretto a liberarlo da pressioni politiche attivate proprio da Marsili, ma era indispettito. «Per rabbia di dover lasciare lo schiavo, gli levò di dosso fin la camicia», narra la Confraternita del riscatto di Bologna; e «benché pregato, non volle dargli manco i suoi ferri». Uno sfregio estremo: Omar e «Gelillo» saranno più generosi con Marsili. Giunto a Bologna, però, Ghiselli portò in processione «le insegne della propria schiavitudine»,24 le catene a lui intestate che vediamo alla Certosa: catene false, nel senso che non possono essere quelle rimaste in Turchia. E non occorre essere un fabbro per sospettare che siano false anche altre catene lì appese: sono tutte uguali, qualunque ne sia l’origine e la datazione, dalla Barberia a Costantinopoli, dal XVII al XVIII secolo. Qualche artigiano bolognese doveva essersi specializzato in questa singolare produzione. A Toledo, se non altro, le catene esposte sono molto varie di foggia.
Non stupisce che nel secolo dei Lumi l’atteggiamento verso tutto ciò cambiò, mentre i redentori erano accusati di imporre ai redenti catene inventate.25 In questo quadro, la storia di Ghiselli che mostra a Bologna catene rimaste a Costantinopoli, ci mette in guardia. Istruttiva è anche la doppia presenza, a Bologna e a Firenze, delle catene del conte Marsili.
6. A forza di manovre con catene dubbie, sue o di suoi protetti, si comprende come qualcuno abbia cominciato a sospettare della schiavitù di Marsili, i cui rapporti con la sua città di origine (la famiglia, il Senato, lo Studio) già non erano ottimali.26 Dopo la liberazione si chiacchierò a lungo sul suo conto, tanto che egli si mise a ordinare i suoi archivi in modo da tramandare un’immagine scelta di sé.27 Ma la salvezza come caffettiere di un pascià interessato alle difese viennesi lasciava perplessi, anche se era stato proprio Marsili a rendere pubblica quella sua comoda mansione. Né bastava a scagionarlo il fatto che all’inizio egli avesse tentato di farsi passare per qualcun altro; poi aveva confessato e nessuno sapeva quale accordo tacito si fosse stabilito: per una volta, la separatezza fra i mondi giocava a favore dello schiavo liberato. A guisa di pasquinate bolognesi,28 circolarono caricature che raffiguravano Marsili «vestito alla turchesca con turbante in testa», mentre una didascalia infieriva: «Avendo apostatato dalla fede ha abbracciato l’Alcorano». Peccato che tutto ciò si sia perso. Si parlò di sevizie sessuali propiziate dalla bellezza del giovane conte. Tematiche sessuali e tematiche religiose si incontrarono esplicitamente: «Ne fecero i Turchi strazio, avendoli non poco pregiudicato presso quella libidinosa canaglia la sua gioventù accompagnata da bellezza di corpo, a segno che veniva riputato per uno de’ più bei giovani del suo tempo. Rovinato poi che l’ebbero con le lascivie, lo maltrattarono con battiture».29
E via di questo passo, con crudi dettagli anatomici. Autore del testo è il canonico della cattedrale Antonio Francesco Ghiselli (da non confondere con lo schiavo Giovanni Maria Ghiselli). Il religioso era un piccolo nobile animato da ostilità di ceto per l’oligarca Marsili. Espunti i dettagli morbosi e la finta pietà, non si può giurare che tutto sia falso.30 La storia delle guerre e delle prigionie, la complessità stessa delle pulsioni umane, ci mettono in guardia da ingenuità moraleggianti. Ma il punto è un altro. Chi era stato in potere dei Turchi, per quanto festeggiato al suo ritorno, si ritrovava al centro di sguardi interrogativi: perché egli era vivo e libero, a differenza di tanti altri? Cosa aveva dato in cambio? Forse informazioni belliche, se le possedeva; forse l’anima, abiurando la propria fede, nei casi più comuni;31 forse il corpo, quando esso fosse attraente. Esperto militare, spregiudicato di pensiero, bello d’aspetto, Marsili rientrava in tutte e tre queste tipologie di scambio potenziale. Con tutte le debite differenze, è il meccanismo colpevolizzante che ha stritolato certi superstiti dei genocidi del secolo XX.32
7. Questo meccanismo, ai tempi di Marsili, si alimentava in particolare di discorsi sulla sregolatezza sessuale degli infedeli. Il tema è inquinato dalle difficoltà dei controlli e da qualche dose di ossessione. Ma ormai il ruolo svolto dalla sessualità nell’ambito dei contatti fra le culture non viene più eluso dalla storiografia33 – né dalla stessa analisi geopolitica.34
Lasciamo a Cervantes, altro schiavo illustre (ad Algeri, dal 1575 al 1580) la responsabilità di un giudizio netto, citandolo dalla traduzione del Don Chisciotte accessibile ai lettori italiani sin dal 1625: «Tra que’ barbari Turchi più si stima et apprezza un ragazzo o garzonotto giovane che una donna, per bellissima che ella sia».35 Dopodiché, senza tentare una forse impossibile ricerca della verità fattuale,36 ci basti un altro piano di verità: il piano delle rappresentazioni mentali. Le quali non favorivano negli schiavi liberati la sincerità di un racconto soggetto a costrizioni d’ogni tipo ‒ fra cui quella esposta da Cervantes.
Marsili venne coinvolto in tutto ciò dal poco pudico canonico Ghiselli e da chissà quanti altri. La sua vicenda di schiavitù conteneva in effetti zone opache. Altre e diverse incertezze su di lui sorgeranno nel 1703, quando sarà degradato per aver ceduto ai Francesi la fortezza renana di Breisach; malgrado la successiva riabilitazione, la calunnia, come ogni calunnia, lascerà i suoi residui. Tutto ciò riguarda solo la biografia dell’uomo Marsili e non la sua figura di scienziato? Sì e no. Viene da pensare che non manchino le interferenze fra i due livelli: per esempio, un certo bisogno di affermazione, di dimostrazione, di polemica, da cui l’autodidatta Marsili, l’ex schiavo dei Turchi Marsili, mai si emanciperà, mentre ondate di maldicenza investivano ogni aspetto della sua vita e della sua ricerca.
Ma il gran passo di prendere il turbante, di rinnegare, sembra che Marsili non l’abbia fatto mai; quel turbante con cui lo infamavano le caricature diffuse a Bologna dopo la sua liberazione. E dire che non sarebbe stato un caso isolato, al suo tempo, nel suo ambiente. Il conte francese Claude-Alexandre de Bonneval fu punito per insubordinazione militare nel 1704 (l’anno dopo la sventura marsiliana a Breisach). A differenza di Marsili, non tentò di difendersi e passò al servizio del nemico, l’Austria. Ma anche lì si mise nei guai, ricevette una condanna a morte che l’imperatore commutò in un anno di prigione e nell’esilio. A questo punto Bonneval si fece Turco col nome di Ahmed, divenne pascià di Rumelia e capo dell’artiglieria ottomana.37 Nel 1729, discorrendo con l’ambasciatore francese a Costantinopoli, giustificò il suo agire a chiare lettere: «Tanti papi e re cattolici si sono alleati agli imperatori turchi che dovrei essere uno sciocco per farmene scrupolo. I nostri principi non si alleano ogni giorno ai sovrani protestanti, che la Chiesa condanna e tratta come se fossero musulmani? Essendo io guarito dei pregiudizi della mia nutrice, la coscienza e l’onore non mi rimproverano nulla al riguardo».38 In più di un’occasione, Marsili avrebbe potuto scegliere la medesima strada, con conseguenze degne di un bel racconto controfattuale; ma, non la scelse, e affrontò le sfide dei sospetti, rimanendo, anche per questo, straniero in patria.
1 Cfr. V. Fumagalli, “Il paesaggio dei morti: luoghi d’incontro tra i morti e i vivi sulla terra nel Medioevo”, Quaderni storici 50 (1982), 411-425; C. Ginzburg, Storia notturna: una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1982; A. Buttitta, “Ritorno dei morti e rifondazione della vita”, in Cl. Lévi-Strauss, Babbo Natale giustiziato, Palermo, Sellerio, 2005, 9-42; e da ultimo, G. Dall’Olio, Nella valle di Giosafat. Giustizia di Dio e giustizia degli uomini nella prima età moderna, Roma, Carocci, 2021, 147-164.
2 Cfr. J.-C. Schmitt, Les revenants: les vivants et les morts dans la société médiévale, Paris, Gallimard, 1994.
3 Cfr. N. Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre: un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1984.
4 Cfr. S. Freud, Il perturbante. In Opere, a cura di C. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, IX, 77-118: 102.
5 Cfr. M. Marini, “Chabert mort ou vif”, Littérature 13 (1974), 92-112, 96.
6 Cfr. E. Peverada, Schiavi a Ferrara nel Quattrocento, Ferrara, Centro Studi Culturali Città di Ferrara, 1981, 26.
7 Cfr. S. Bono, I corsari barbareschi, Torino, ERI, Edizioni RAI, 1964, 310-323; Id., “Istituzioni per il riscatto di schiavi nel mondo mediterraneo. Annotazioni storiografiche”, Nuovi studi livornesi 8 (2000), 29-43.
8 M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, trad. it. Torino, Einaudi, 1969, 69.
9 L.F. Marsili, Bevanda asiatica, Vienna d’Austria, Giovanni van Ghelen, 1685. Cfr. R. D’Amora, “Luigi Ferdinando Marsili, Hezārfenn and the Coffee: Texts, Documents and Translations”, Oriente moderno 100-1 (2020), 106-119.
10 Cfr. G. Rebucini, Acculturation et culture, in F.P. Guillèn, R. Salicrú i Lluch (eds.), Ser y vivir esclavo. Identidad, aculturaciòn y ‘agency’, Madrid, Casa de Velázquez, 2021, 113-126.
11 Cfr. E. Lovarini (a cura di), La schiavitù del generale Marsigli sotto i tartari e i turchi da lui stesso narrata, Bologna, Zanichelli, 1931, 50-52, 81-84, 131; F. Martelli, Le Leggi, Le Armi e Il Principe, Bologna, Pitagora, 1990, 31-33; J. Stoye, Marsigli’s Europe, New Heaven, Yale University Press, 1994, 15-36; R. Gherardi (a cura di), La politica, la scienza, le armi. Luigi Ferdinando Marsili e la costruzione della frontiera dell’Impero e dell’Europa, Bologna, Clueb, 2010.
12 W. Kaiser (dir.), Le commerce des captifs. Les intermédiaires dans le commerce et le rachat des prisonniers en Méditerranée, Rome, École Française de Rome, 2008; S. Cabibbo, M. Lupi (a cura di), Relazioni religiose nel Mediterraneo. Schiavi, redentori, mediatori, Roma, Viella, 2012.
13 Ho anticipato in altra sede questa prospettiva: cfr. G. Ricci, Chaînes d’esclaves: un signe d’identité fiables?, in Guillèn, Salicrú i Lluch, (eds.), Ser y vivir esclavo, cit., 63-71. Sul punto di metodo, ovviamente, cfr. C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1986.
14 Tema sterminato: J. Caro Baroja, Falsificaciones de la historia, Barcelona, Seix Barral, 1992; L. Canfora, La storia falsa, Milano, Rizzoli, 2010; U. Eco, Tipologia della falsificazione, in Fälschungen im Mittelalter: internationaler Kongreß der Monumenta Germaniae historica, I, Hannover, Hahnsche Buchhandlung, 1988, 69-82; C. Ginzburg, Il filo e le tracce: vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2006, 270-280. P. Mounier, C. Nativel (dir.), Copier et contrefaire à la Renaissance: faux et usage de faux, Paris, Champion, 2014.
15 Cfr. G. Ricci, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2002, 140-192; R.C. Davis, Christian Slaves, Muslim Masters, London, Palgrave Macmillan, 2003, 125-127; C. Nubola, Les rites de la libération. Justice et grâce à Milan sous l’Ancien Régime, in L. Faggion et L. Verdon (dir.), Rite, justice et pouvoirs. France-Italie, xive-xixe siècle, Aix-en-Provence, Presses Universitaires de Provence, 2012, 147-160. Alla base, M. Douglas, Purity and Danger: An analysis of concepts of pollution and taboo, London-New York, Routledge, 2003, 42-65.
16 Cfr. S. Bono, “La pirateria nel Mediterraneo. Romagnoli Schiavi dei Barbareschi”, La Piê 22 (1953), 205-210; Id., “La pirateria nel Mediterraneo. Bolognesi schiavi a Tripoli”, Libia 2 (1954), 25-37; M. Fanti (a cura di), Gli archivi delle istituzioni di carità, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1984, 129-131; R. Sarti, “Bolognesi Schiavi dei ‘Turchi’”, Quaderni Storici 107 (2001), 438-439.
17 Cfr. P. Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1973, 30-31, 115-116, 163, 297, 338.
18 Cfr. P. Dan, Histoire de Barbarie, Paris, Racolet, 1637, 60, 199, 224; E. Lovarini (a cura di), La schiavitù, Bologna, Zanichelli, 1931, 172-173; P. Vismara, Conoscere l’Islam, in B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, P. Vismara, L’Islam visto da Occidente: cultura e religione del Seicento europeo di fronte all’Islam, Genova, Marietti, 2009, in particolare 215-226.
19 G.A. Scalabrini, Memorie istoriche, Ferrara, Carlo Coatti, 1773, 131.
20 Cfr. Ricci, Ossessione turca, cit., 165-166.
21 Cfr. M. Carboni et al. (a cura di), La città della carità, Bologna, Costa Editore, 1999, 132-134.
22 Cfr. B. Martinez Caviró, El Monasterio de San Juan de los Reyes, Bilbao, Editorial Iberdrola, 2002.
23 L. Scaraffia, Loreto, Bologna, Il Mulino, 1998, 25-26; M. Moroni, L’economia di un grande santuario, Milano, Franco Angeli, 2000, 24-31.
24 Nel riscatto di Gio. Maria Ghiselli, Bologna, Monti Giacomo, 1683, 14.
25 Cfr. P. Deslandres, L’ordre des Trinitaires, Toulouse, Edouard Privat, 1903, 395-396; M. Lenci, Lucchesi nel Maghreb, Lucca, Pacini Fazzi Editore, 1994, 45-48.
26 Una sintesi in G. Gullino, C. Preti, Marsili, Luigi Ferdinando, in DBI, 70 (2008), 771-781.
27 Cfr. A. Gardi, Luigi Ferdinando Marsili, Bologna, Clueb, 2010, 237-264.
28 Cfr. C. Evangelisti, Parlare, scrivere, vivere nell’Italia di fine Cinquecento, Roma, Carocci, 2018, 13-64.
29 A.F. Ghiselli, Memorie antiche manoscritte di Bologna, XXXIX, ff. 826-827; XLII, ff. 621-623; LXVI, ff. 172-173, 221-222; LV, ff. 57-58.
30 Cfr. Lovarini (a cura di), La schiavitù, cit., 21-22 («ma non deve essere vero»: e chi lo sa?).
31 R. D’Amora, ‘Saving a Slave, Saving a Soul’: The Rhetoric of Losing the True Faith in Seventeenth Century Italian Textual and Visual Sources, in C. Norton (ed.) The Lure of the Other: Conversion and Islam in the Early Modern Mediterranean, London-New York, Routledge, 2017, 155-177.
32 Cfr. M. Nichanian, La perversion historiographique, Paris, Lignes-Leo Scheer, 2006, 201-211; P.V. Mengaldo, La vendetta è il racconto, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, 54-58.
33 Cfr. L.T. Ramey, Christian, Saracen and Genre, New York, Routledge, 2006; L. Colley, Prigionieri, Torino, Einaudi, 2004, 16-21, 143-145.
34 Cfr. S. Seelow, “L’orientation sexuelle à l’épreuve du djihad”, Le Monde, 26 luglio 2016.
35 M. Cervantes Saavedra, Dell’ingegnoso cittadino Don Chisciotte della Mancia. Et hora nuouamente tradotta con fedeltà e chiarezza di spagnuolo in italiano da Lorenzo Franciosini, II, Venetia, Andrea Baba, 1625, 661. Nell’edizione critica del testo spagnolo: M. de Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, 1035 (II 63). Cfr. G. Ricci, Paura del Turco, attrazione per il Turco: intorno a Don Quijote II 63-65, in Il Mediterraneo di Cervantes. 1571-1616, a cura di M.M. Rabà, Cagliari, Consiglio nazionale delle ricerche, 2018, 147-167.
36 Cfr. S.O. Murray et al. (eds.), Islamic Homosexualities, New York, NYU Press, 1997.
37 Cfr. H. Benedikt, Des Pascha-Graf Alexander von Bonneval, 1675-1747, Graz, Hermann Böhlaus Nachf., 1959.
38 Cfr. S. Gorceix, Bonneval Pacha, pacha à trois queues. Une vie d’aventure au XVIIIe siècle, Paris, Plon, 1953, 146-147.